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Geografie del Mediterraneo Nero
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Abstract. In the wake of the 2015 Mediterranean refugee crisis, a growing number of scholars has increasingly turned to the “Black Mediterranean” as an analytical framework for understanding the historical and geographical specificities of Blackness in the Mediterranean region. This work draws upon and extends Paul Gilroy's powerful theorizations of the Black Atlantic by asking how Blackness is constructed, lived, and transformed in a region that has been alternatively understood as a “cultural crossroads” at the heart of European civilization, a source of dangerous racial contamination, and – more recently – as the deadliest border crossing in the world. But the Black Mediterranean is not a claim to any incommensurable difference or exceptionalism. In my talk, I draw on insights from Black, feminist, and postcolonial geographies to argue that the Mediterranean – which currently occupies a marginal position in global theorizations of racisms that are typically oriented on North America and the Atlantic – is actually a relational space that offers profound insights about the organization of the modern world. I argue that new solidaristic political formations in the Black Mediterranean (which are, in many cases, led by Black women) have the potential to challenge heteropatriarchal, arborescent constructions of nation-as-racial-family, and should prompt us to rethink the categories of race, gender, citizenship, and Blackness on a global (rather than purely regional or methodologically nationalist) scale.
Kurzfassung. Seit der Flüchtlingskrise im Mittelmeerraum im Jahr 2015 wächst die Zahl der Wissenschaftler*innen, die das “Schwarze Mittelmeer” als Analyserahmen zum Verständnis der historischen und geographischen Spezifitäten des Schwarzseins in der Mittelmeerregion nutzen. Ihre Arbeiten beziehen sich auf Paul Gilroys (1993) einflussreiche Theorie des Schwarzen Atlantiks bzw. erweitern diese, indem sie fragen, wie Schwarzsein in einer Region konstruiert, gelebt und transformiert wird, die abwechselnd als “kulturelle Schnittstelle” im Herzen der europäischen Zivilisation, als Quelle gefährlicher “rassischer Verunreinigung” oder – zuletzt – als tödlichster Grenzübergang der Welt verstanden wurde und wird. Aber das Schwarze Mittelmeer erhebt keinen Anspruch auf irgendeine unvergleichbare Differenz oder Ausnahmestellung. Gestützt auf Erkenntnisse aus der Schwarzen, feministischen und postkolonialen Geographie behaupte ich, dass der Mittelmeerraum – der in den üblicherweise auf Nordamerika und den Atlantik ausgerichteten Rassismustheorien momentan nur eine Randposition einnimmt – in Wirklichkeit ein relationaler Raum ist, der tiefgreifende Erkenntnisse über die Organisation der modernen Welt bietet. Ich behaupte, dass neue, solidarische politische Formationen im Schwarzen Mittelmeer (die häufig von Schwarzen Frauen angeführt werden) das Potenzial haben, die heteropatriarchalen, baumartigen Konstruktionen der Nation als “Blutsverwandschaft” infrage zu stellen, und uns dazu bewegen sollten, die Kategorien race, Geschlecht, Staatsbürgerschaft
und Schwarzsein im globalen (statt im rein regionalen oder methodisch
nationalen) Maßstab zu überdenken.
Riassunto. Sulla scia della “crisi” dei rifugiati nel Mediterraneo, dal 2015 è in costante aumento il numero di studiosi e studiose che si rivolgono al Mediterraneo Nero come quadro analitico per comprendere le specificità storiche e geografiche della Nerezza nella regione mediterranea. Questo lavoro attinge a e amplia le feconde teorizzazioni di Paul Gilroy sull'Atlantico Nero interrogandosi sulla costruzione, il vissuto e le trasformazioni della Nerezza in una regione caratterizzata in fasi alterne come “crocevia culturale” nel cuore della civiltà europea, fonte di pericolosa contaminazione razziale, e – in anni recenti – il più mortifero luogo di attraversamento di confini al mondo. Il Mediterraneo Nero non costituisce una rivendicazione di differenza incommensurabile o di eccezionalità e il mio contributo attinge alle intuizioni offerte dalle geografie Nere, femministe e postcoloniali per sostenere che questa regione – attualmente in una posizione marginale nelle teorizzazioni globali dei razzismi usualmente orientate verso l'America del Nord e l'Atlantico – è in realtà uno spazio relazionale che sprigiona profonde intuizioni sull'organizzazione del mondo moderno. Le nuove realtà e prassi presenti nel Mediterraneo Nero improntate a politiche di solidarietà, in molti casi, guidate da donne Nere, rivelano un grande potenziale di sfida alla Nazione come costrutto etero-patriarcale e di ordine arborescente, inteso come famiglia razziale. Al di là del loro impatto puramente regionale o metodologicamente nazionalista, tali sviluppi dovrebbero indurci a ripensare le categorie di razza, genere, cittadinanza e Nerezza su scala globale.
Vorrei esprimere immensa gratitudine per il generoso invito estesomi dalla rivista Geografica Helvetica: è un grande onore per me affrontare le tematiche del Mediterraneo Nero nella cornice di una prestigiosa rivista che tanto ha contribuito agli studi a livello internazionale. Sono particolarmente grata ad Hanna Hilbrandt, Nadine Marquardt e Timothy Raeymaekers per il loro aiuto nell'impostazione di questo contributo.
Nella mia ricerca esamino le modalità con cui giovani donne e uomini Neri1 si attivano e s'impegnano oggi a coniare un discorso e un lessico attenti ai contorni specifici del razzismo e dell'esclusione in Italia, non per questo rinunciando a collocare la diversità di vissuti dell'Italia Nera all'interno di un contesto diasporico Nero molto più ampio e globale. Ragazze e ragazzi afrodiscendenti nati o cresciuti in Italia si concentrano non solo sulla lotta per il diritto alla cittadinanza in senso istituzionale, ma anche a forgiare collettività politiche attraverso un senso condiviso di Nerezza (Blackness). E innumerevoli sono le ricadute dovute a tale orientamento che mette necessariamente in discussione i limiti della cittadinanza nazionale come mezzo per mitigare i danni più gravi inflitti dallo Stato italiano improntato alla razzializzazione. Allo stesso tempo bisogna anche ricordare che la Nerezza come categoria non è né univoca né sempre una verità manifesta. Da chi esattamente è costituita “l'Italia Nera”, e quali sono gli interessi rappresentati dalle nuove politiche sprigionate dal concetto di “italianità Nera”? Come funziona questa categoria, e chi potrebbe esserne inavvertitamente escluso/a?
Mentre da un lato gli attivisti e le attiviste Neri italiani alla ricerca di solidarietà e ispirazione politica guardano oltre i confini del contesto nazionale, dall'altro, quali sono gli spazi che essi stessi mappano con riguardo all'Italia all'interno della cartografia della diaspora Nera globale contestualmente alle rivolte contemporanee e internazionali contro il razzismo anti-Nero? Nel mio lavoro esploro quella che considero una tensione produttiva, cioè quella che si sprigiona quando gli italiani Neri tentano di articolare le specificità della soggettività Nera (e del razzismo anti-Nero) in Italia in relazione a due fattori: (1) da un lato, il mito di un'Italia mediterranea presumibilmente colorblind, ovvero “cieca verso il colore”; e, (2) dall'altro, l'egemonia schiacciante esercitata dalle geografie Nere atlantiche e dalle teorizzazioni e terminologie relative alla razza elaborate nell'America del Nord su qualsiasi discorso sulla Nerezza elaborato altrove. Quindi, quali potrebbero essere le modalità in grado di consentire alle e ai giovani afrodiscendenti in Italia di articolare in maniera efficace le proprie distinte soggettività politiche Nere italiane senza incorrere nel rischio di negare l'esistenza del razzismo in Italia o di trascurare la scala globale delle pratiche di razzializzazione e di razzismo dirette verso i Neri, oppure di restare ammaliati da una visione troppo romantica del Mediterraneo? Sono particolarmente interessata a una serie di rapporti, tra cui quelli tra nazione e cittadinanza, italianità e Nerezza, cultura nazionale italiana e Nerezza transnazionale – tutti rapporti che concepisco come terreni di lotta contestati in cui entrano sempre in gioco una varietà di discorsi inerenti a parentela, discendenza e diritti a cui si accede per nascita, quello che in inglese si chiama birthright.
Nel mio intervento di oggi, per riflettere sugli stimoli e sulle provocazioni a livello teorico-politico innescati dal concetto di Mediterraneo Nero, tenterò di elaborare un intreccio di spunti provenienti dalla teoria femminista Nera e postcoloniale e dalle geografie Nere. A seguito della “crisi” dei rifugiati nel Mediterraneo che nel 2015 ottenne grande risonanza internazionale, è in continuo aumento il numero di studiosi e studiose che volgono lo sguardo al Mediterraneo Nero come quadro analitico per comprendere le specificità storiche e geografiche della Nerezza nella regione mediterranea. Nel mio lavoro mi ispiro a e cerco di ampliare i fecondi contributi teorici relativi all'Atlantico Nero elaborati da Robert Farris Thompson ([1984] 2010) e Paul Gilroy (1993), entrambi autori di approfondite indagini su come la Nerezza sia costruita, vissuta e trasformata in una regione geografica quale il Mediterraneo, concepita, in fasi alterne, come un “crocevia culturale” nel cuore della civiltà europea, fonte di pericolosa contaminazione razziale, e, in anni più recenti, come il più mortifero luogo di attraversamento di confini mai riscontrato al mondo. Tuttavia, a mio avviso, parlare di Mediterraneo Nero non significa una rivendicazione di differenza o di eccezionalità incommensurabili. Vorrei in effetti focalizzare l'attenzione su come il Mediterraneo sia in realtà uno spazio relazionale capace di generare profonde intuizioni sull'organizzazione del mondo moderno, nonostante il fatto che attualmente occupi una posizione marginale nelle teorizzazioni globali dei razzismi, solitamente orientate verso l'America del Nord e l'Atlantico. Quando parliamo di storie globali di razzismo, così come di soggettività Nera, resistenza e “livingness” nel senso di vita e del vivere nel suo insieme, urge iniziare una consapevole operazione di “provincializzazione” degli Stati Uniti d'America e del Nord Atlantico. Infatti, le nuove formazioni politiche nel Mediterraneo Nero (che, in molti casi, vantano la leadership di donne Nere) sono in grado di sfidare l'idea di cittadinanza nazionale come appartenenza a una “famiglia razziale”, costrutto di chiara genesi etero-patriarcale e di ordine arborescente (Malkki, 1992) . Piuttosto che limitarci a un'ottica puramente regionale o metodologicamente nazionalista, tali mobilitazioni delle e degli afrodiscendenti dovrebbero spingere tutti noi studiosi a mettere maggiormente in risalto le insidie degli intrecci tra razzismo anti-Nero, (post)colonialità e la crescente militarizzazione dei confini su scala globale.
Quando faccio un riferimento specifico a teorie e approcci femministi, non intendo solo lo studio delle donne e dell'attivismo femminile, ma in maniera lata ai modi in cui le pratiche discorsive di genere permeano una sorta di “normo-concetto” di nazione come “famiglia razziale” basata sulla discendenza. In altre parole, nel mio lavoro intendo il genere come “categoria analitica” fertile (Scott, 1986) in grado di aiutarci a capire l'articolarsi dei rapporti di potere tramite l'intreccio e la costruzione reciproca di razza, genere, cittadinanza e nazione. Il mio lavoro è radicato nella prassi femminista e, in seguito alla mia autoidentificazione come Nera italiana, imposto la mia ricerca in un modo necessariamente autoriflessivo, ma che allo stesso tempo non trascura le asimmetrie di potere. Questo mio approccio è radicato sia in un'epistemologia di stampo femminista sia nell'attenzione alla deontologia della ricerca (Collins, 2002; Haraway, 1988; Harding, 2004) – in particolare, nella consapevolezza non solo che la nostra è una conoscenza situata, ma che anche la spazialità del conoscere può costituire un punto di partenza generativo da cui teorizzare. Per queste ragioni inizio dalle seguenti precisazioni: mia madre è una donna bianca italiana cresciuta nel comune di Trescore (in provincia di Bergamo); mio padre è un uomo nero statunitense nato nella Virginia rurale e cresciuto a Oakland, nella Baia di San Francisco, nel Nord della California. Si sono conosciuti negli anni in cui mio padre era arruolato nell'esercito statunitense e di stanza in Italia; si sono sposati in Italia nel 1976 e alcuni anni dopo sono tornati in California, dove sono nata. In famiglia praticavamo il bilinguismo, ma la mia prima lingua in realtà è stata l'italiano perché trascorrevo ogni estate (e spesso anche l'inverno) in Italia con i familiari di mia madre, che proviene da una famiglia composta da tredici tra fratelli e sorelle. Tutto questo per dire che la mia vita è stata plasmata sin dall'inizio da profondi legami sia con elementi di diaspora nera sia di italianità. E poiché il mio nonno materno bianco italiano ha combattuto nelle guerre coloniali italiane in Libia, sono collegata sia alla storia del colonialismo italiano nel continente africano sia a quella della Tratta atlantica degli schiavi, tramite mio padre. Per via di questi legami sperimentati nel mio vissuto, nel corso della mia ricerca sono stato colpita dalle profonde assonanze esistenti tra le storie degli italiani Neri in Italia e le mie esperienze personali. Le loro intuizioni mi hanno aiutato a capire me stessa e la mia famiglia in modi inediti, a cui non avrei potuto accedere solo in base alla mia esperienza di Nera statunitense.
Ma a prescindere dalla mia esperienza personale, non tutte le nostre Nerezze italiane sono facilmente tracciabili nei loro vari innesti, e le loro conseguenze possono sottintendere portate molto diverse. Come statunitense, godo dei privilegi di mobilità transnazionale relativamente libera che derivano da un passaporto americano e da un'affiliazione istituzionale accademica d'élite negli Stati Uniti d'America. Possiedo inoltre la cittadinanza italiana tramite mia madre, in virtù della stessa struttura di ius sanguinis basata sulla discendenza che, parallelamente, ha privato di diritti di cittadinanza molti delle mie compagne e dei miei compagni Neri italiani. Nonostante il fatto che io sia nata in California e loro siano nati e/o cresciuti in Italia, io sono cittadina italiana semplicemente per il fatto di essere nata da madre cittadina italiana – un altro esempio della reciproca compenetrazione tra razza, genere, parentela e cittadinanza. Negli anni, queste assonanze e dissonanze tra le mie esperienze di italianità Nera e quelle dei miei interlocutori e delle mie interlocutrici hanno costituito un terreno fertile per una serie di progetti elaborati congiuntamente in Italia, sia all'interno che fuori dalla cornice accademica.
Il mio intervento sarà suddiviso in quattro parti. In primo luogo, discuterò il concetto di Mediterraneo Nero, e come esso si ispiri a, e nel contempo sia in grado di dialogare con l'Atlantico Nero in modo “riparativo” (Sedgwick, 2003) . In seguito, esaminerò come il Mediterraneo Nero complichi le narrazioni universalizzanti che interpretano la Nerezza solo attraverso la lente dell'economia di piantagione e delle conseguenze della schiavitù. Tutto ciò mi porterà a riflettere sul delicato ma necessario lavoro di traduzione della Nerezza attraverso geografie e storie di formazione razzializzate distinte ma interconnesse – lavoro che è già stato intrapreso dalle attiviste Nere italiane oggi. Infine concluderò il mio intervento soffermandomi su alcune lezioni che il Mediterraneo Nero offre alle lotte antirazziste in atto in questo momento nel mondo intero.
Come impostazione analitica, il Mediterraneo Nero attinge al lavoro di Robert Farris Thompson e Paul Gilroy che si sono interrogati su come esso possa essere concepito quale altra rotta oceanica attraverso la quale le soggettività Nere sono forgiate, vissute e contestate. Cosa significa de-centrare l'Atlantico come unico generatore della diaspora Nera? La lente del Mediterraneo Nero, per come lo intendo io, ci fornisce uno strumento prezioso per esaminare le specificità storiche e geografiche di una molteplicità di forme e di esperienze di vita Nera, per pensare a genealogie e tecnologie alternative di razzismo (e resistenza), e per elaborare orizzonti politici alternativi che vanno oltre lo stato-nazione.
È importante ricordare che per Cedric Robinson in Black Marxism il punto di partenza della storia del capitalismo razziale è proprio il bacino del Mediterraneo – il tutto prende avvio dagli importanti centri di commercio e finanza costituiti dalle Repubbliche marinare, situate nella penisola italiana, come pure dalle isole del Mar Mediterraneo in cui, per la prima volta al mondo, venne sperimentata l'economia di piantagione come sistema di coltivazione basata sullo schiavismo (Robinson, [1983] 2005). Infatti, come scrive Robin D. G. Kelley nella sua Prefazione all'edizione del 2000 di Black Marxism, “Robinson … ha sviluppato una concezione del Mediterraneo Nero come precondizione dell'Atlantico Nero e della costruzione dell'Europa stessa” (Kelley, [1983] 2005:xix) perché “esorcizzare il Mediterraneo Nero riguarda la costruzione stessa dell'Europa quale entità distinta, razzialmente pura, sola responsabile della modernità, da un lato, e la costruzione del Negro, dall'altro” (ibid., xiv). Gli studi contemporanei sul Mediterraneo Nero invece dimostrano che ben lungi dal trattarsi semplicemente di una precondizione attualmente defunta, soppiantata dai regimi nordatlantici del capitalismo razziale, esso oggi stesso costituisce un luogo di vitale e costante riproduzione di razzismi, Nerezza e resistenza.
Porre al centro questi legami storici, insopprimibili e costanti tra Africa subsahariana e Italia attraverso il Mediterraneo potrebbe agevolare un ripensamento critico della modernità europea stessa, mettendo in questione la separazione tra la Nerezza dell'Africa subsahariana e l'immaginario del Mediterraneo come calderone all'interno del quale è stata prodotta una civiltà europea presumibilmente bianca. Come è stato vigorosamente dimostrato dal lavoro di studiose quali Olivette Otele (2021), ricentrare le complessità della Nerezza e del vissuto Nero nella storia della modernità euro-mediterranea serve a minare le pericolose presunzioni dell'assolutismo etnico europeo. Questo proprio perché, nel contesto della storiografia eurocentrica, il Mediterraneo è stato concepito principalmente come un incubatore politico, culturale ed economico dell'Europa – culla della civiltà.
Il collettivo di ricerca di cui faccio parte, il Black Mediterranean Collective, si è costituito in seguito alla “crisi” dei rifugiati nel Mediterraneo del 2015–2016. In qualità di gruppo interdisciplinare di studiose e studiosi che studiano il razzismo, il colonialismo, la Nerezza e le politiche di migrazione e cittadinanza in Italia, abbiamo notato che la maggior parte degli interventi di commentatori appartenenti al mondo accademico o del giornalismo sulla “crisi” dei migranti affrontava le molteplici violazioni messe in atto dalle politiche europee di militarizzazione dei confini come violazioni che attentavano a un umanesimo universale astratto e condiviso. Quasi mai i loro interventi sottolineavano il fatto che la maggior parte degli arrivi in Italia tramite la rotta del Mediterraneo centrale era composta da migranti Neri provenienti dall'Africa subsahariana (e, in molti casi, dotati di legami postcoloniali diretti con l'Italia) – o se lo facevano, era di sfuggita piuttosto che come parte essenziale della storia. Negli scritti, in gran parte statunitensi, che mettevano in evidenza il fatto che i rifugiati e i richiedenti asilo erano Neri, vi era spesso la tendenza inquietante a sovrapporre acriticamente le geografie della Tratta atlantica degli schiavi (il Middle Passage) su quanto stava accadendo nel Mediterraneo.
Per l'insoddisfazione verso entrambi questi approcci generata dalle loro palesi limitazioni, il collettivo ha iniziato a chiedersi in che modo sarebbe cambiata la narrazione se l'analisi della “crisi” dei rifugiati avesse avuto come punto di partenza il Mediterraneo quale luogo di riproduzione del capitalismo razziale e di soggettività Nere diasporiche, un Mediterraneo dotato di una propria storia al riguardo che continuava a riprodurre con costanza anche oggi. Le attività ed elaborazioni del collettivo hanno iniziato ad assumere forma pubblica attraverso due simposi da noi organizzati nel 2016 e nel 2017 alla Birmingham City University, in occasione del lancio del primo programma di laurea in Black Studies in Gran Bretagna. Dalle idee e dai documenti elaborati in quelle due occasioni, abbiamo poi tratto i materiali che avrebbero costituito il volume collettaneo, curato collettivamente, intitolato The Black Mediterranean: Bodies, Borders, and Citizenship (Proglio et al., 2021).
Prima di proseguire, vorrei offrire un'indicazione che considero importante – soprattutto perché parlo a colleghe e colleghi geografi! La maggior parte del lavoro svolto finora esplicitamente sotto l'egida del Mediterraneo Nero si è concentrato sull'Italia. Ciò non significa dare per scontato che occorre impostare la ricerca per spazi nazionali delimitati, ma piuttosto che tale scelta è stata dettata dalla necessità di mettere in evidenza le modalità in cui, sin dai tempi dell'unificazione nazionale italiana alla fine del XIX secolo, i concetti di cittadinanza e di differenza sono stati elaborati in relazione alla percezione di una sua specifica posizione razziale liminale nel bacino del Mediterraneo. È ovvio che le geografie del Mediterraneo Nero non si esauriscono affatto con l'Italia e in effetti interessanti linee di ricerca stanno emergendo su Spagna, Grecia e Portogallo. Inoltre, come ci viene ricordato dall'antropologo Ampson Hagan, l'indagine sul Mediterraneo Nero necessariamente comprende anche l'altra sponda del Mediterraneo (Hagan, 2017). Il lavoro dello studioso, ad esempio, prende in esame la violenza razziale affrontata dai migranti Neri mentre attraversano il Sahel e il Sahara in rotta verso le coste meridionali europee del Mediterraneo. Nel fare ciò, egli solleva interrogativi piuttosto inquietanti sulla riproduzione dei razzismi ai danni dei Neri messi in atto nel continente africano stesso, sulle eredità del colonialismo europeo e sulla condensazione dei regimi di confine dell'Unione europea oltre la zona Schengen. Insomma, di storie da raccontare ce ne sarebbero un'infinità.
Una linea chiave di indagine dei Black Studies e delle Geografie Nere riguarda le modalità in cui la schiavitù razzializzata basata sull'economia di piantagione continui a plasmare le impostazioni spazio-razziali del presente. Finora la maggior parte della ricerca in questo senso si è concentrata su contesti nordamericani, il che ci porta a sollevare importanti interrogativi sulla misura in cui questi preziosi spunti possano essere estesi ed applicati (in senso fanoniano) (Fanon, 2007:5) al Mediterraneo Nero. Tra le studiose e gli studiosi c'è chi si occupa di tracciare l'eredità della schiavitù nelle configurazioni contemporanee di capitalismo razzializzato e di accumulazione tramite espropriazione, come pure nelle categorie di proprietà, lavoro e valore anch'esse razzializzate che ne conseguono. Altri invece esaminano le modalità in cui la schiavitù rimane sedimentata nei paesaggi fisici attuali e nelle forme di organizzazione socio-politica contemporanea, ad esempio nei regimi disciplinari e punitivi che formano l'intreccio di sistemi di polizia, sorveglianza e incarcerazione di massa.
Un certo numero di teorici e teoriche si è impegnato a tracciare come è avvenuta la sovrapposizione tra schiavitù e produzione di sistemi ontologici che ancora oggi definiscono le categorie e gerarchie che continuano a determinare il valore e l'accesso alla piena “umanità”. È stato merito delle femministe Nere indirizzare la nostra attenzione verso le modalità in cui, durante la Tratta atlantica, la schiavitù e l'ungendering, ovvero l'annullamento del genere riservati a chi aveva la pelle nera, hanno plasmato quello che oggi intendiamo per genere, differenza di genere e i sistemi sociali ad essi correlati (come parentela e famiglia etero-patriarcale). Altri studiosi si sono invece dedicati a un'indagine delle modalità in cui le disparità razziali del presente – nel sistema sanitario, educativo e carcerario, per citare solo alcune aree – possono essere ricondotte alla violenza della schiavitù e ad altre “istituzioni particolari” che ne sono derivate (i famigerati Black Codes, la pratica di “noleggiare” detenuti a terzi, le leggi e pratiche di separazione razziale denominate Jim Crow, la segregazione). Questo, naturalmente, senza trascurare il ruolo della schiavitù nella formazione delle soggettività Nere, della resistenza e della ribellione.
All'interno di questo vasto impianto di studi e ricerche, esiste una molteplicità di approcci per concettualizzare i modi in cui la forma di schiavitù che contraddistingue l'economia di piantagione continua a plasmare il nostro mondo attuale. La studiosa e scrittrice Saidiya Hartman è conosciuta per aver teorizzato la vita postuma della schiavitù (definendola in inglese afterlife, suggerendo quindi la dimensione di una vita che va oltre) come un “calcolo razziale e aritmetica politica radicatisi secoli fa”, che continuano a mettere in pericolo le vite dei Neri attraverso “le ineguaglianze nelle opportunità di vita, l'accesso limitato alla sanità e all'istruzione, la morte prematura, l'incarcerazione e l'impoverimento” (Hartman, 2008:6). Dato fondamentale della schiavitù per Hartman è il fatto che essa non sia sfociata nella libertà bensì nella riorganizzazione e riconfigurazione della servitù Nera in altre forme. Sovvertendo la narrazione liberale, semplicistica e teleologica che mette in evidenza il progresso storico da prigionia e schiavitù a libertà, il lavoro di Hartman ci insegna a prendere atto della molteplicità dei modi in cui l'eredità della schiavitù continua a modellare “l'incompiutezza della vita Nera” (Crenshaw, 2020) nel presente.
Ma non è detto che il resoconto della vita postuma della schiavitù debba prendere unicamente la forma di un libro mastro della morte dei Neri in passato e del loro morire adesso – in effetti, è anche possibile porre l'accento sugli aspetti vitali insiti nel concetto di vita postuma (appunto l'elemento life nel concetto di after life). Nella sua concettualizzazione dei “futuri delle piantagioni”, McKittrick riconosce la continua importanza delle logiche plantocratiche peculiari all'economia di piantagione, mentre si adopera anche a sfuggire a un sistema autopoietico (nel senso attributo al termine da Maturana e Varela) di significato che insiste a riprodurre e ricapitolare la morte dei Neri (McKittrick, 2011, 2013). Per McKittrick, l'opera di studiose come Hartman è rivelatrice anche delle modalità in cui l'oggettivazione Nera – istanziata attraverso le geografie della Tratta atlantica, della schiavitù e della piantagione – ha anche “creato le condizioni attraverso cui la Nerezza possa venire riarticolata come `insorgenza diasporica”' (McKittrick, 2020, 2016:13). In altre parole, l'economia di piantagione non è solo un apparato disciplinare socio-spaziale, ma anche una tecnologia politica di soggettivazione. È comprensibile perché McKittrick si sia premurata di mettere in campo una serie di argomentazioni sulle conseguenze di una costante scrittura e riscrittura della storia della schiavitù come inaugurazione esclusiva di “morte Nera”, dell'oppressione Nera, della distruzione del corpo Nero:
Il lavoro intellettuale di onorare narrazioni razziali complesse che nominano le lotte contro la morte può essere, paradossalmente, minato da un inquadramento analitico che si sofferma su e concretizza la violenza razziale. La difficoltà concettuale è insita nei modi in cui le descrizioni della violenza razziale contribuiscono alla frammentazione costante tuttora in atto nelle relazioni umane (McKittrick, 2016:15).
E tutto ciò spinge la studiosa ad affermare che “la vita Nera – non solo la sopravvivenza Nera – dà forma e sostanza alla modernità” (McKittrick, 2016:13; 2020).
Centrale al modo in cui McKittrick articola i futuri della piantagione è la geografia e, in particolare, nell'accezione di prassi geografica femminista Nera improntata alla collaborazione, alla relazionalità e ad un amore accanito per la vita Nera. Come la studiosa stessa ha spiegato in un recente dialogo con Nick Mitchell, bisogna fare attenzione a non confondere ogni fenomeno o istituzione della contemporaneità (ad esempio, l'università) con la piantagione e la sua economia, bensì occorre parlare dei modi in cui i sistemi moderni contengono al loro interno espressioni di idee plantocratiche (McKittrick and Mitchell, 2021). Questa potrebbe sembrare una mossa di modesta portata ma ha invece delle conseguenze enormi. Come spiega la studiosa in “On Plantations, Prisons, and a Black Sense of Place”:
… come la piantagione offre il futuro attraverso il quale si fanno conoscere le geografie e le violenze razziali contemporanee, è proprio all'interno dei nostri futuri collettivi improntati alla piantagione che si favorisce il dibattito su una molteplicità di prospettive e fratture (Nere e non) sui temi di spazialità e appartenenza (McKittrick, 2011:950).
Il fatto che i sistemi di dominazione non siano mai totalizzanti, che le geografie siano sempre contestate e modificabili, e che la vita dei Neri sia sempre oggetto di eccesso di violenza razziale, ha delle profonde conseguenze politiche perché significa che queste spaccature e interstizi possono diventare terreni significativi di lotta.
Cosa significherebbe dare ascolto in maniera profonda a questi fertili spunti sulla molteplicità delle geografie Nere – plasmati da e allo stesso tempo in eccedenza di idee e spazialità plantocratiche? Cosa succede se spostiamo l'analisi su una parte del mondo in cui la maggior parte della popolazione Nera non è in realtà discendente da popolazioni schiavizzate? Questo è vero in gran parte, se non in maggior parte, per la diaspora Nera in Europa oggi, ed è per tale motivo che questo interrogativo occupa adesso una posizione centrale nel mio lavoro. Persino nel Regno Unito, nazione in cui la popolazione Nera una volta comprendeva principalmente immigrati caraibici, cioè donne e uomini che erano sudditi britannici postcoloniali e discendenti di persone schiavizzate, oggi i Neri di origine caraibica sono stati di gran lunga superati dal punto di vista numerico da immigrati provenienti dal continente africano e dai loro figli (Minority Rights Group, 2015). In termini di paesaggi fisici, i paesi europei non possiedono le stesse architetture e configurazioni socio-spaziali materiali inerenti alle geografie del “colonialismo da insediamento-piantagione” (King, 2015). Tali differenze sono, naturalmente, dovute alla divisione internazionale del lavoro razzializzato che caratterizza la Tratta atlantica degli schiavi – e che per una sorta di gioco di prestigio geografico permette all'Europa di occultare le proprie responsabilità e additare la schiavitù come fenomeno accaduto “altrove”, cioè nelle Americhe.
Nell'ultimo decennio, ho osservato in Italia la crescita dell'organizzazione e della mobilitazione di ragazze e ragazzi figli di immigrati africani intorno a una propria soggettività politica distinta”, e, nel corso di tale evoluzione, molti hanno articolato un rapporto complesso con la storia della schiavitù. Per la maggior parte dei Neri italiani, la schiavitù non è direttamente legata al loro vissuto presente o al loro retaggio (anche se il discorso potrebbe valere invece per i figli di immigrati afro-latinx2 in Italia). Essi tendono, invece, ad orientare le proprie narrazioni collettive verso paesi africani specifici, esperienze di dominazione e resistenza (post/neo) coloniale, e storie familiari di migrazione trans-mediterranea. Faccio tre brevi considerazioni basate sulla mia esperienza personale che rivelano la diversità delle chiavi di lettura e la gamma di modalità in cui ho visto posizionarsi giovani donne e uomini Neri italiani in relazione alla storia della Tratta atlantica.
Discendenza: Sono un'italiana Nera con un insieme di percorsi e vissuti diverso rispetto alla maggioranza delle mie interlocutrici e interlocutori in Italia – in particolare, sono una Nera statunitense i cui antenati paterni sono l'anello di congiunzione con la Tratta atlantica, ma sono anche italiana dal punto di vista “etnico” per via di madre, possedendone la cittadinanza per diritto di nascita. All'inizio della mia ricerca, quando c'era ancora una certa titubanza nell'utilizzo di identificativi quali “Nera italiana” o “Afro-italiana”, alcune persone nella mia cerchia di amicizie asserivano che prefissi come “Black” o “Afro” avevano senso solo nel contesto americano, perché noi Neri statunitensi non conosciamo i paesi africani o le etnie da cui provengono i nostri antenati. In effetti, l'importanza che essi assegnavano al tracciamento della discendenza a specifici paesi africani sembrava evocare un filone anti-Nero basato sulla schiavitù come stigma e la volontà di riscrivere l'importanza della parentela biologica – ironia della sorte, lo stesso principio che limita il loro stesso accesso alla cittadinanza in Italia. All'inizio del mio lavoro sul campo, ho dovuto abituarmi a rispondere alla domanda “Ma da dove in Africa viene esattamente la famiglia di tuo padre?” Se incalzata, magari rispondevo: “Non lo sappiamo con certezza. Da qualche parte in Africa occidentale, probabilmente quello che oggi è il Ghana o la Nigeria”.
Rizoma: Allo stesso tempo, molte altre persone Nere italiane con cui ho interloquito avevano un minor investimento nel tracciare distinzioni nette tra esperienze Nere dei due Paesi, il loro pensiero andava oltre gli alberi genealogici lineari, l'ordine arborescente, e di genere per considerare le relazioni rizomatiche e i molteplici punti di ingresso nella comunità diasporica. Per esempio, la fondatrice della prima risorsa digitale in lingua italiana per la cura dei capelli Neri naturali si è anche premurata di presentare nel suo sito Internet storie sulla Tratta atlantica e sulle pratiche utilizzate dalle donne nere schiavizzate per prendersi cura dei capelli, come pure l'uso delle acconciature come strumenti di resistenza. Pur continuando a sottolineare l'importanza di creare un lessico specificamente italiano per far fronte alle esperienze di razzismo e misoginia vissute dai Neri e dalle Nere italiani, considerava comunque la Tratta atlantica parte della propria storia, per il fatto che aveva inaugurato la diffusione globale delle idee sulla Nerezza e sul gender embodiment, ossia la corporeità di genere (Frisina and Hawthorne, 2018; Hawthorne, 2019).
Intrecci spazio-temporali: Infine, anche la letteratura femminile Nera in Italia è diventata terreno fertile attraverso il quale le Nere e i Neri italiani si impegnano a interpretare la relazione tra le traiettorie atlantiche e mediterranee della Nerezza. Un esempio importante di questo movimento si può trovare nel romanzo La linea del colore (2020) della scrittrice italo-somala Igiaba Scego che intreccia le storie di Lanafu Brow – donna Nera americana del XIX secolo, figlia di padre afro-haitiano e di madre Chippewa, che diventa pittrice di fama mondiale a Roma – e di Leila, curatrice d'arte somalo-italiana che nel 2019 organizza una mostra di dipinti della pittrice ottocentesca (Scego, 2020). Il romanzo di Igiaba Scego offre un approccio diverso capace di realizzare un palinsesto denso di racconti di viaggi transatlantici e trans-mediterranei, storie e retaggi del colonialismo e della resistenza Nera evitando appiattimenti e di obliterare la distinzione dei loro contorni specifici.
Profonde sono le tensioni che attraversano queste tre chiavi di lettura basate su discendenza, rizomi e intrecci spazio-temporali. Molte tra le persone Nere italiane si sforzano di affermare la particolarità del proprio vissuto, evitando allo stesso tempo le insidie di un eccezionalismo italiano (espresso soprattutto dalla popolazione bianca) che reifica i confini dello stato-nazione con affermazioni come “Non possiamo essere razzisti perché qui non c'è stata la schiavitù o Jim Crow”. Come riconoscere la specificità storica e geografica senza riprodurre gli stessi meccanismi di ungendering, ossia negazione del genere, che distruggono la parentela, discussi da Hortense Spillers nel libro Mama's Baby, Papa's Maybe (Spillers, 1987), elementi centrali nella violenza del Middle Passage (ad esempio, “Non siete come noi perché non sapete da dove venite”)? Come dare il dovuto risalto al significato globale della Tratta atlantica, senza per questo sottovalutare le narrazioni del vissuto dei Neri italiani – che di solito non mettono in primo piano la schiavitù? Alcune tra le ricerche più recenti hanno tentato di farlo – per esempio, le considerazioni di Christina Sharpe sul Mediterraneo Nero in In the Wake (Sharpe, 2016) e le riflessioni di Grace Musila (2020) sulle conseguenze della schiavitù attraverso i romanzi di scrittrici e scrittori africani della diaspora.
Tuttavia, diversamente dal lavoro svolto da chi studia e scrive sulla schiavitù, mi turba il fatto che tali opere non sempre prendano pienamente in considerazione le dimensioni affettive o fenomenologiche delle esperienze umane e dei vissuti di queste comunità diasporiche sparse per il mondo. Ossia, non sempre c'è un lavoro di scavo in profondità su come le “vite postume” teorizzate da Hartman si manifestano nel contesto di particolari storie (in questo caso) italiane, al di là di un più vasto insieme di trasformazioni storiche mondiali. Cosa bisogna fare per spostare il discorso verso il concreto, cioè oltre il regno dell'astrazione teorica? Sono domande che mi sono posta durante la “crisi” dei rifugiati nel Mediterraneo del 2015/16, quando un certo numero di osservatori negli Stati Uniti d'America ha iniziato a mettere, a mo' di termine di paragone di quanto accadeva nel Mediterraneo in quel momento, il famoso diagramma della nave negriera Brookes (vedi Wood, 2000) strategicamente posizionato accanto a immagini delle riprese aeree di barconi di migranti sparse nell'azzurro del Mediterraneo. A che livello operano questi confronti visivi, e quali analisi escludono?
A prescindere da tali limiti, un certo numero di studiosi ha cercato di affrontare una più ampia gamma di relazioni tra storia e vita postuma dell'economia di piantagione nella diaspora Nera globale. In un'affascinante ricerca etnografia, ad esempio, l'antropologo Bayo Holsey (2008) traccia le modalità, spesso divergenti, in cui le turiste e i turisti neri statunitensi e quelli ghanesi si relazionano alla storia della schiavitù e ai luoghi fisici della tratta degli schiavi lungo la costa del Ghana. Questo tipo di lavoro è legato a una serie di interrogativi che animano gli studi della diaspora Nera, vale a dire: (1) che cosa si intende per unità o collegamento trasversale tra le varie diaspore Nere; (2) in che modo le particolarità di ciascun luogo danno forma a relazioni diasporiche distinte; e (3) in che modo la contraddizione e la tensione si manifestano nella diaspora in egual misura (se non in misura maggiore) rispetto all'armonia e alla concordia. Nel libro Dusk of Dawn, per esempio, Du Bois ([1940] 2011) focalizza la propria attenzione sulla distinzione tra parentela razziale e discendenza biologica e suggerisce che la diaspora può essere concettualizzata come differenza piuttosto che come unità. Ragionando in termini simili, Stuart Hall (1990) scrive che l'unità diasporica non equivale a mera identità, bensì a una struttura complessa, e pone l'accento sull'esperienza del divenire nella diaspora (al contrario di un concetto statico di essere), spostamento che riconosce i processi di soggettivazione di chi vive in diaspora in regimi egemonici di rappresentazione eurocentrica. In altre parole, sia Du Bois che Hall intendono la diaspora non come un insieme di origini remote condivise, ma piuttosto come mescolanza (per Du Bois) o ibridazione (per Hall).
Queste stesse problematiche sono state riprese da studiose che lavorano nella tradizione femminista Nera come punto di partenza per mettere in discussione le concettualizzazioni dominanti della diaspora che spesso, implicitamente, classificano il soggetto diasporico come maschile. Jacqueline Nassy Brown (2005), ad esempio, nota che il rilievo attribuito da Paul Gilroy alla navigazione e ai movimenti maschili nella traversata atlantica in The Black Atlantic non lasciano margini sufficienti alla creazione dello spazio diasporico femminile. In altre parole, Gilroy non riconosce pienamente le realtà dell'asimmetria nell'accesso alla mobilità o la caratteristica di genere del luogo o del “locale” come femminile. È importante pensare alla diaspora in termini di differenza proprio perché, come scrive Brown, “l'associazione della diaspora a una parentela Nera a livello mondiale, per così dire, può effettivamente rendere invisibili certi tipi di soggetti Neri, le loro esperienze, storie e identità” (Brown, 2009:201).
È per questo motivo che in Physics of Blackness (Wright, 2015) la studiosa Michelle Wright si schiera contro le narrazioni dominanti della Nerezza che utilizzano un'esposizione lineare del progresso, orientata da quella che lei chiama “epistemologia della Tratta atlantica”, la quale “indica nel Middle Passage il momento cruciale che separa i Neri in Occidente dalle loro origini ancestrali, collocando poi tutti gli eventi antecedenti e successivi, dal mondo classico ai giorni nostri, in relazione alla Tratta atlantica” (Wright, 2006:139). Secondo la studiosa, il Middle Passage comincia a perdere rilevanza perché la stragrande maggioranza delle persone nere europee non è arrivata in Europa attraverso tale rotta; le loro molteplici storie sono invece più strettamente legate al colonialismo e alla seconda guerra mondiale. Attingendo agli spunti offerti della teoria queer e femminista Nera, Wright rifiuta la ricerca di origini stabili e modelli di parentela patriarcali, biocentrici e di ordine arborescente basati sulla discendenza, necessariamente iscritti in tale tipo di metodologia. Come Brown, Wright cerca di dare spazio a “definizioni di Nerezza che non escludano, isolino o stigmatizzino” – un compito la cui urgenza, sostiene la studiosa, è dovuta alla “crescente proliferazione in tutto il mondo di una molteplicità di comunità e persone Nere le cui storie e il cui status attuale di identità Nere `con il trattino' necessitano rappresentazione e inclusione” (Wright, 2015:5)
Quindi, tenendo presenti queste considerazioni, è davvero produttivo pensare alla politica della Blackness in Italia attraverso la lente dell'economia di piantagione e della schiavitù? Tale interrogativo è collegato a un'ulteriore domanda: quando parliamo della vita postuma della schiavitù, o dei futuri della piantagione, siamo alla ricerca di nessi immediati (sia spaziali che basati sulla parentela), o di modalità in senso lato in cui il sistema della schiavitù razziale ha modellato i sistemi globali di categoria e gerarchia razziale? In altre parole, come possiamo concettualizzare l'economia di piantagione sfuggendo a due trappole, cioè o quella di ridurre la sua rilevanza a una questione di parentela strettamente bio-genealogica o di renderla poco più che una vaga metafora per l'anti-Nerezza in generale? Sarebbe un risultato davvero notevole anche perché, come fa notare Maurice Stierl (2019), i politici e le politiche europei usano paragoni con la Tratta atlantica presumibilmente per impedire nuove schiavitù, pertanto giustificando i regimi di fortificazione e di militarizzazione dei confini, e usando terminologie quali “la nuova tratta degli schiavi” per criminalizzare i tentativi di migrazione attraverso il Mediterraneo e lungo le frontiere europee.
Queste sono le domande sulle quali sto attualmente orientando la mia ricerca e incomincio a intravedere due possibili modi di impostare eventuali risposte. Il primo comporta ripensare il sistema mondiale inaugurato dal commercio transatlantico – i cosiddetti “North Atlantic Universals” (Universali del Nord Atlantico) (Trouillot, 2002) che sono in realtà fondati in specifiche storie materiali di esproprio, spoliazione e sfruttamento razzializzati incentrati sulle economie di piantagione che hanno legato le Americhe, l'Europa e l'Africa in violente intimità transcontinentali (Lowe, 2015). Dopo tutto, come sostiene Walter Rodney in How Europe Underdeveloped Africa (Rodney, [1972] 2018), la storia della Tratta atlantica degli schiavi e delle sue conseguenze di vite postume non è esclusivamente una storia statunitense, anche se questo concetto è usato più spesso per parlare degli Stati Uniti. La schiavitù ha spopolato e devastato i sistemi sociali, economici, culturali e politici del continente africano; a livello intellettuale è legata alla produzione di un umanesimo razzializzato che sta alla base della modernità globale. Come attesta la recente ondata di ricerche femministe Nere, è fondamentale insistere sull'importanza di collegare lo studio della fungibilità Nera all'esproprio della terra e delle culture delle popolazioni indigene in modi che superino il binarismo lavoro/terra usato per distinguere tra schiavitù razziale e insediamento coloniale, orientandosi invece sulle forme di espropriazione corporea messe in atto contro donne Nere e native (Day, 2021).
Spostare questi spunti oltre il contesto nordamericano potrebbe anche essere utile a riformulare il pensiero in relazione ai nessi tra schiavitù ed eredità del colonialismo nel continente africano, e, di conseguenza, sugli elementi politico-economici che hanno creato le condizioni per la migrazione africana attraverso il Mediterraneo verso l'Italia dalla metà del ventesimo secolo in poi. Tale spostamento richiama anche la nostra attenzione sulla centralità delle lotte anticoloniali Nere nella formazione delle soggettività Nere europee. Infatti, nell'introduzione di To Exist Is to Resist: Black Feminism in Europe, Akwugo Emejulu e Francesca Sobande fanno notare che l'universalizzazione di una particolare esperienza Nera statunitense può cancellare “le lunghe storie di lotte antimperialiste delle femministe Nere europee trasversali ai vari imperi europei” (Emejulu and Sobande, 2019:5).
In secondo luogo, c'è anche il fatto che i sistemi finanziari, le modalità di politica economica e le tecnologie del potere caratteristiche dell'economia di piantagione furono effettivamente testati nelle colonie mediterranee ben prima di essere esportati all'altra sponda dell'Atlantico. Come ci fa notare Cedric Robinson in Black Marxism, tra il tredicesimo e il sedicesimo secolo, la penisola italiana, e particolarmente le città di Genova e Venezia, furono uno snodo fondamentale nelle reti di commercio, dialogo intellettuale e produzione culturale che collegavano il mondo europeo a quello africano, arabo e asiatico. Tali reti comprendevano anche un lucroso commercio mediterraneo degli schiavi, che non era limitato a Neri africani (Davis, 2003; Bono, 2016), e che costituiva una fonte importante di forza lavoro non libera da occupare in zone agricole sparse per tutto il Mediterraneo (Robinson, [1983] 2005:4). Questa tratta mediterranea degli schiavi finì per affermarsi come modello per l'uso della manodopera di africani Neri schiavizzati nelle colonie del Mondo Nuovo (Robinson, [1983] 2005:16). Come fornitori dei capitali per queste imprese, i mercanti genovesi in particolare furono coloro che, in ultima analisi, “determinarono la direzione e il ritmo” dell'espansione spagnola e portoghese per tutto il Mediterraneo e l'Atlantico, e l'emergere quindi della stessa Tratta atlantica degli schiavi (Robinson, [1983] 2005:104–105, 2014).
Questo secondo approccio costituisce in realtà un “capovolgimento” della rappresentazione egemonica della relazione tra schiavitù e Nerezza globale. Tale rovesciamento ci induce a chiederci non tanto se fenomeni sviluppatesi nell'America del Nord e nel Nord Atlantico possano essere rispecchiati oggi nel Mediterraneo, bensì a reinserire le geografie mediterranee omesse nelle storie che raccontiamo sulla storia del capitalismo razziale. Ed è questo l'approccio adottato da P. Khalil Saucier e Tryon Woods quando sostengono che la vera storia del razzismo anti-Nero e della schiavitù nel bacino del Mediterraneo è stata oscurata dai movimenti “antischiavisti” moderni che si occupano della “crisi” dei rifugiati nel Mediterraneo:
La violenza anti-Nera nel bacino euro-mediterraneo affonda le sue radici nella prima tratta degli schiavi africani del XV secolo e nei successivi “viaggi di scoperta” che stabilirono ulteriormente il dominio europeo sul Mediterraneo e sulle coste atlantiche. Ben presto gli europei iniziarono ad acquistare cotone e altre materie prime in India da scambiare con schiavi acquistati in Africa e portati nelle Americhe per estrarre l'oro, legando rapidamente quattro continenti in un unico regime di accumulazione globale alla cui base sta la violenza razziale (Woods and Saucier, 2015).
Ciò che entrambi questi approcci condividono è il rifiuto di qualsiasi logica univoca, totalizzante o universalizzante per teorizzare la politica della Blackness su scala globale. Ciascuno di questi studiosi sottolinea l'importanza di prestare la dovuta attenzione alla molteplicità dei modi in cui le storie si sono sedimentate, così come alle loro copiose interconnessioni, trasversalità e articolazioni globali. Dopo tutto, per fare un esempio, nel diciannovesimo e ventesimo secolo, l'Italia faceva parte di un sistema globale di pensiero e di scienza razziale, incorporato in reti transnazionali di produzione di conoscenza scientifica che utilizzava il corpo femminile Nero come terreno materiale per stabilire e contestare i confini dell'identità e della cittadinanza razziale-nazionale. Ad esempio, Cesare Lombroso, oggi considerato il fondatore della criminologia moderna e forse il più famoso e prolifico teorico razziale italiano, nella sua collezione di quadri aveva un ritratto di Sarah Baartman (Pittura della Venere Ottentotta, n.d.), nonostante che la stessa non fosse mai stata portata in Italia. Fu attraverso la dissezione visiva del suo corpo (e il suo confronto con i corpi delle prostitute dell'Italia meridionale) che Lombroso scrisse le proprie teorie sull'atavismo e sulla criminalità che mappavano la categoria “italianità” in base alla relativa distanza da o prossimità a un corpo femminile Nero teorizzato in modo biocentrico (Sòrgoni, 2003). Non c'è da stupirsi se ancor oggi continuo a sentirmi perseguitata dalla presenza spettrale di Sarah Baartman negli archivi di Lombroso (Painting of the Venere Ottentota, n.d.).
È precisamente per tali ragioni che sostengo l'impossibilità di affrontare oggi il Mediterraneo Nero come precondizione (ormai scomparsa) di un ordine capitalista razziale mettendo al centro il Nord Atlantico. Né è sufficiente accostarsi alle dinamiche del Mediterraneo contemporaneo come mera derivazione delle vite postume Nere della Tratta atlantica. Considero invece urgente studiare le riproduzioni del Mediterraneo Nero in corso nel presente, insieme a tutte le sue articolazioni costanti e non lineari con l'Atlantico Nero (così come i legami che continuano a tutt'oggi con il Pacifico Nero e l'Oceano Indiano Nero). E queste considerazioni mi portano dunque alla mia seconda area di indagine: la politica della traduzione diasporica.
Nel corso della mia ricerca sulla diaspora Nera in Italia, ho notato una seconda tendenza in vari interventi sull'Italia Nera che tracciano l'origine delle politiche e delle mobilitazioni della diaspora Nera negli Stati Uniti (o in alternativa, in America del Nord, o di tanto in tanto nei Caraibi) teorizzandone poi la diffusione, in un secondo momento, verso le comunità Nere in Europa. La linearità di tali narrazioni è stata oggetto di un'approfondita critica da parte dei Black European Studies, e in particolare da parte delle studiose e degli studiosi Neri europei, che volgono lo sguardo verso le asimmetrie nella distribuzione del potere e dei privilegi della diaspora Nera. Ad esempio, negli Stati Uniti i Black Studies sono un campo di ricerca maggiormente strutturato e inserito nelle istituzioni accademiche rispetto all'Europa, situazione che ha plasmato le economie di produzione di conoscenza sulla diaspora Nera in un modo definito polemicamente da alcuni studiosi Neri europei “egemonia afroamericana”. Si tratta indubbiamente di un argomento scomodo, e gli attriti generati da tale asimmetria sono stati discussi e dibattuti da Darlene Clarke Hine (Hine, 2009), Gloria Wekker (Wekker, 2009), Jacqueline Nassy Brown (Brown, 2009), e Alexander Weheliye (Weheliye, 2009) in una raccolta collettanea di saggi di importanza fondamentale e intitolata Black Europe and the African Diaspora (Hine et al., 2009). L'esempio classico che viene riportato nel libro per illustrare questa tensione diasporica si riferisce al fenomeno delle numerose persone Nere statunitensi che trovarono rifugio in Francia negli anni tra le due guerre mondiali del novecento, mentre allo stesso tempo la Francia colonizzava brutalmente il continente africano (Stovall, 2009). In qualità di coordinatrice della Black Europe Summer School di Amsterdam3, ogni anno mi capita di parlare con almeno una studentessa o studente Nero proveniente dagli Stati Uniti che mi confessa che si sta riprendendo dalla bizzarra e scomoda sensazione di sentirsi “americano” per la prima volta, dopo aver messo piede in Europa.
L'Europa Nera attira così la nostra attenzione verso la diaspora sia come processo che come relazione spesso messi in atto con asimmetrie manifeste. In Altri tedeschi, Tina Campt critica le ricerche sui tedeschi Neri che li contestualizzano esclusivamente in relazione alla storia Nera americana, come individui all'inizio di un viaggio teleologico verso una “vera” coscienza Nera, cioè sottintendendo la reificazione della diaspora come modello privilegiato di Nerezza. Secondo la studiosa è necessario invece partire proprio dal rapporto tra le persone Nere tedesche e la diaspora prima di presumere la loro inclusione su un piano di parità al suo interno (Campt, 2005). È per questa ragione che Fatima El Tayeb, prendendo spunto dai contributi delle correnti teoriche queer, invita a effettuare un “queering dell'etnicità” che metta in discussione “le narrazioni etero-normate e lineari dell'identità Nera” in favore di soggettività più complesse, internazionali, frammentate e dialogiche (El-Tayeb, 2011:xlii). In altre parole, sostiene che l'obiettivo non sia quello di identificare i modi in cui le Nere e i Neri europei si discostino da un'esperienza Nera di riferimento nelle Americhe elevata a “normoesperienza” ma che sia piuttosto quello di indagare come le comunità Nere europee complichino e pluralizzino produttivamente la nostra comprensione della Nerezza e delle geografie Nere.
Nella mia ricerca, uno dei temi che trova concordi le giovani e i giovani attivisti Neri italiani è l'importanza di costruire un lessico in grado di comunicare i contorni specifici del razzismo anti-Nero e delle soggettività Nere in Italia. Tra le mie interlocutrici e i miei interlocutori molti hanno dichiarato di aver dapprima guardato agli Stati Uniti d'America per trarre ispirazione, scoprendo però ben presto che questi modelli non si adattavano perfettamente alle loro esperienze – per le stesse ragioni discusse nella sezione precedente del mio intervento (Hawthorne, 2017). Nel contempo però, si trovavano anche ad affrontare un senso di sconnessione dal resto della diaspora Nera globale, dovuta sia all'invisibilizzazione dell'Italia Nera su scala globale, sia alle barriere linguistiche che ostacolavano la circolazione delle risorse diasporiche. In effetti, nel libro The Practice of Diaspora, Brent Hayes Edwards sostiene che un elemento chiave nell'ascesa dell'internazionalismo Nero negli anni 1920 fu il duro lavoro di traduzione “anche di una grammatica di base della Blackness – una grammatica spesso attraversata da “inevitabili fraintendimenti e letture errate [e] cecità e solipsismi persistenti” (Edwards, 2009:5).
In risposta a queste sfide, le italiane e gli italiani Neri hanno intrapreso un duplice sforzo. Il primo comporta progetti per impegnarsi nella traduzione diasporica e costruire una sorta di grammatica di base della Blackness italiana – un progetto in linea con il concetto di alfabetizzazione della diaspora proposto dalla teorica femminista Nera VèVè Clark (2009). E il secondo comprende il progetto di articolare e trasmettere l'Italia Nera a una diaspora Nera più vasta all'interno della quale le persone Nere italiane non siano però ridotte allo status di semplici “partner di minoranza”. Questo lavoro viene svolto in gran parte al di fuori delle università e del mondo accademico, spazi che rimangono per lo più ostili al progetto dei Black Studies – rifiuto che in realtà ha lasciato un certo margine a immagini e pratiche più creative dell'italianità Nera, svincolate dalle esigenze disciplinari dell'istituzione universitaria. E, elemento importante, a metter in atto questo lavoro in misura preponderante sono donne Nere italiane, non sempre legate all'università, ma che fanno attivamente politica culturale – in particolare artiste, registe, scrittrici, performer e attiviste. In effetti, direi che questo lavoro di traduzione diasporica, così come si svolge negli interstizi della vita quotidiana, all'interno delle case, negli spazi anarchici occupati, nelle collaborazioni transnazionali, nei collettivi di traduzione improntati alla “guerriglia”, è una prassi squisitamente femminista, con nessi diasporici alla tipologia di pratiche femministe queer radicate nel movimento Black Lives Matter (BLM) fin dai suoi primi giorni. È una modalità di studio e prassi femminista Nera orientata verso la creazione di modelli di cura basati sulla collettività piuttosto che su modalità di scambio guidate dal profitto o dal riconoscimento: prevede la condivisione di concetti, lingue, strategie, competenze e risorse diasporiche come aiuto reciproco (Summers et al., 2020).
Dopo l'omicidio di George Floyd nell'estate del 2020, le manifestazioni di BLM si sono rapidamente diffuse oltre l'Atlantico, in Europa. Da casa mia in California, dove trascorrevo il periodo del confinamento dovuto al COVID-19, ho assistito alle immagini di manifestazioni molto partecipate del movimento BLM di Milano scorrere sullo schermo, divulgate in lungo e in largo a livello internazionale. È stato emozionante ma, allo stesso tempo, mi ha lasciata un po' perplessa il taglio dato dai media statunitensi a queste azioni di piazza in maggioranza sotto la leadership di Nere e Neri italiani. In primo luogo, contrariamente alle narrazioni egemoniche dei media all'epoca, non si trattava della prima volta che il movimento BLM era “diventato globale”: infatti, avevo scritto in precedenza, riferendomi all'estate del 2016, come altro momento in cui il linguaggio del BLM fosse stato ripreso dagli attivisti Neri italiani in Italia (Hawthorne, 2017). Perfino l'impostazione, in apparenza lineare, del “BLM che diventa globale” sembrava non dare lo spazio dovuto al lavoro intrapreso ormai da oltre un decennio dalle organizzatrici e dagli organizzatori Neri italiani: un lavoro di movimento dal basso che a volte, ma non sempre, era esplicitamente collegato alle mobilitazioni di piazza organizzate dagli attivisti Neri negli Stati Uniti.
Piuttosto che riproporre narrazioni di politica Nera diasporica improntate al diffusionismo, vorrei concludere il mio intervento suggerendo di spostare la nostra attenzione verso una chiave di lettura che consideri il movimento BLM stesso come risorsa diasporica all'insegna della reciprocità condivisa in movimenti trasversali nei diversi luoghi della diaspora – e in particolare, in questo caso, tra l'Atlantico Nero e il Mediterraneo Nero. Nello spirito del lavoro di Doreen Massey sullo spazio relazionale (Massey, 1994), considero il BLM come una risorsa diasporica che si dispiega in maniera relazionale nel momento in cui si stabilisce in contesti geografici diversi, e le cui rivendicazioni politiche ed etiche vengono costantemente trasformate ed ampliate nel corso delle sue attività. Pur essendoci oggi in Italia, ad esempio, una sovra-rappresentanza di detenuti che fanno parte della categoria degli immigrati (Angel-Ajani, 2014), la lotta contro i regimi carcerari non costituisce l'obiettivo principale delle mobilitazioni del BLM in quel Paese.
Il discorso del movimento si è invece concentrato su come rendere importanti le vite Nere tramite la cittadinanza come forma improntata al binomio genere e razza, legato a storie specifiche di formazione razziale italo-mediterranea che hanno inciso strutturalmente sulla deselezione (Wynter, 2003) dei figli e delle figlie di immigrati africani nati in Italia in modo tale che, dalla prospettiva dello Stato, le loro vite letteralmente non contano come membri riconosciuti della comunità nazionale. Le mobilitazioni di BLM in Italia sottolineano il fatto che la cittadinanza è una questione profondamente femminista, legata alle paure razziste inerenti alla riproduzione sociale della nazione italiana e ai cambiamenti demografici. Le attiviste e gli attivisti Neri italiani ambiscono a un ampliamento del movimento BLM in Italia oltre la cosiddetta “seconda generazione” che inglobi sia persone Nere che immigrano sia quelle che chiedono asilo. Entrambe queste categorie affrontano la violenza dei regimi di confine dell'Unione europea, lo stato di abbandono e il regime razzializzato dei centri di detenzione come pure l'orribile sfruttamento del lavoro nei campi agricoli del sud e nord Italia (Hawthorne and Pesarini, 2020). In altri termini, riallacciandosi proprio al nome del movimento BLM, essi cercano di portare alla luce un mondo basato sul concetto radicale secondo cui, come afferma la geografa abolizionista Ruth Wilson Gilmore, “dove la vita ha un valore, la vita vale” (Kushner, 2019).
Alle femministe Nere in Italia è spettato il compito di tracciare le connessioni tra la mancanza di valore della vita Nera in Italia oggi e il retaggio del colonialismo italiano nel Corno d'Africa. Dialogando con le lotte per rimuovere le statue dei Confederati e di Cristoforo Colombo negli Stati Uniti d'America, per esempio, a Milano le attiviste hanno organizzato manifestazioni femministe davanti alla statua del giornalista italiano Indro Montanelli. Volontario nella Seconda guerra italo-abissina del 1935–1936, e successivamente autore di una rubrica molto seguita sul conflitto per il principale quotidiano nazionale italiano Il Corriere della Sera, Montanelli è stato per decenni oggetto di grande stima nel Paese, nonostante il fatto che per anni avesse negato l'utilizzo di gas velenosi da parte dell'esercito italiano durante la “pacificazione” della Libia e la re-invasione italiana dell'Etiopia (Messina, 2016). Notoriamente si vantava anche nei salotti televisivi di aver acquistato una dodicenne eritrea come “sposa bambina” mentre si trovava di stanza in Etiopia, e fino alla sua morte negò qualsiasi accusa che questa “relazione” costituisse uno stupro perché, come sosteneva, le norme “europee” relative all'infanzia e alla sessualità semplicemente non erano valide in Africa o, per estensione, per le ragazze Nere (Quando Montanelli comprò e violentò una bambina di 12 anni, 2022; Bacha, 2019; Coin, 2019; Achtner, 2019; Tamburri, 2020).
Nonostante la centralità del quadro concettuale e del lessico dell'abolizionismo nelle mobilitazioni di BLM negli Stati Uniti, tale orientamento non è stato ancora esplicitamente adottato in Italia delle attiviste e degli attivisti Neri. Alcune delle loro lotte indubbiamente vanno in quella direzione, come dimostra, ad esempio, la sempre più frequente rivendicazione dell'abolizione di Frontex, l'agenzia europea per le frontiere che è la maggior responsabile di violenza ai danni di migranti Neri (Stierl, 2020). Sul versante statunitense dell'abolizionismo, Angela Davis ha in effetti notato che l'aspetto “carcerario” dei regimi di frontiera dell'Unione europea e delle strutture di detenzione degli immigrati ricalca ed è collegato all'espansione del complesso industriale carcerario negli Stati Uniti e quello delle infrastrutture del colonialismo israeliano in Palestina (Davis, 2016). Inoltre, c'è da notare la crescente frequenza con cui le conversazioni sulle possibilità e i limiti della cittadinanza nazionale e del riconoscimento dello Stato come mezzo per affrontare il razzismo anti-Nero portino a sollevare domande provocatorie sull'abolizione della cittadinanza come istituzione.
Sono gli intrecci tra razzismo, cittadinanza, confini e colonialismo a offrire la chiave per comprendere la politica razziale del Mediterraneo Nero, e a offrire lezioni importanti per le lotte abolizioniste che si stanno svolgendo anche negli Stati Uniti d'America. In qualità di soggetti razzializzati, fra di essi molti ex sudditi coloniali, i Neri e le Nere italiani sono direttamente collegati alla migrazione e ai regimi di confine, e le loro poliedriche politiche culturali come pure il loro attivismo intervengono direttamente nelle questioni femministe di razza, nazione, parentela e cittadinanza. Come tali, le loro esperienze dimostrano l'importanza di sviluppare formazioni politiche più ampie e “capienti”, che non siano orientate su rivendicazioni identitarie basate sulla discendenza, ma piuttosto su visioni politiche condivise, in grado di accogliere canovacci complessi di lotta e resistenza, come pure intrecci diasporici non lineari in grado di sovvertire i sistemi di categorizzazione statali.
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The author has declared that there are no competing interests.
Publisher's note: Copernicus Publications remains neutral with regard to jurisdictional claims in published maps and institutional affiliations.
I thank Pina Piccolo for her translation from English to Italian.
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[Nota della traduttrice] Il contenuto di questo intervento mette in risalto l'importanza dell'inclusività nellepratiche del movimento e nel linguaggio e ribadisce a più riprese il protagonismo femminile e le questioni digenere all'interno del movimento e delle teorizzazioni sulla Nerezza. Nella situazione in cui in Italia il dibattito sullaquestione inclusività/neutralità della lingua continua a imperversare senza arrivare a soluzioni soddisfacenti, purriconoscendo la validità di alcune obiezioni che sono state sollevate all'uso del plurale non marcato eapprezzando gli sforzi che si stanno compiendo per arrivare a soluzioni di inclusività sia in ambito sociale chelinguistico, al fine di agevolare la fruizione del testo tradotto, la traduttrice ha scelto di mantenere l'uso delplurale non marcato e di ricorrere a sdoppiamenti e locuzioni neutre quando possibile.
Il termine Latinx adoperato per designare persone di provenienza centro o sud americana cerca di stabilire neutralità a livello di genere utilizzando la desinenza X, aggirando così la connotazione maschile o femminile (latino–latina) che ne risulterebbe in inglese con il calco dallo spagnolo.
https://www.blackeurope.org/ (last access: 13 May 2022).