Articles | Volume 77, issue 2
https://doi.org/10.5194/gh-77-207-2022
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18 May 2022
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Vite postume del Mediterraneo e il ricordo della presenza Nera

Timothy Raeymaekers
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È da almeno mezzo decennio che Camilla Hawthorne è per me un'enorme fonte di ispirazione, avendola conosciuta intorno al 2016 attraverso le mie allora nascenti riflessioni sul Mediterraneo Nero. Sebbene tale concetto esistesse già da tempo1, l'avevo evocato spontaneamente solo allora durante le fasi iniziali della mia ricerca sulle infrastrutture migratorie in Italia. Negli anni che seguirono il crollo del regime di Gheddafi e il successivo intervento della NATO in Libia, l'abiezione delle vite Nere è letteralmente esplosa alle mie porte nella forma di migranti - prevalentemente dall'Africa subsahariana – che, trovandosi a perdere la vita nei propri Paesi, cercavano di concepire un futuro sull'altra sponda attraversando le acque del Mediterraneo. Mentre da un lato cercavo di capire le conseguenze di un regime europeo di frontiera sempre più repressivo, e, dall'altro, l'espansione del ruolo dei lavoratori migranti in importanti settori dell'economia quali la logistica dei trasporti e la produzione agroalimentare in Italia e in Europa più in generale, mi avvicinai per un po' agli attivisti di un palazzo temporaneamente occupato da migranti a Bologna, una città nota per le sue importanti mobilitazioni ispirate ai movimenti no-global e all'autonomia. Situato in un'ex clinica odontoiatrica, l'edificio ospitava diverse famiglie eritree e somale su piani separati. Accanto all'ex clinica odontoiatrica c'erano oltre una dozzina di altre occupazioni organizzate da migranti e movimenti autonomi. Verso il 2015 la situazione diventò sempre più tesa a causa dell'intensificarsi degli sgomberi in città e si era verificato un deterioramento dei rapporti tra gli occupanti migranti e il collettivo italiano che fungeva da tramite con l'amministrazione comunale bolognese. Fu allora che incontrai Ahmed. Somalo poco più che ventenne, Ahmed ricordava i continui respingimenti a cui era stato sottoposto come pure le detenzioni durante il lungo viaggio transcontinentale tra Somalia, Italia e vari paesi europei, dove si era trovato ad alloggiare in un'alternanza tra squat informali e centri di detenzione gestiti dallo Stato. Uno di questi luoghi di detenzione formale era stata un'ex caserma militare, Alessandro la Marmora, di Torino costruita durante l'invasione italiana della Somalia2. Non rimasi affatto stupito da tale correlazione storica, poiché le traiettorie di militarizzazione e carceralità tendono a coincidere materialmente con quelle del passato nel contesto del controllo migratorio contemporaneo (come hanno già sostenuto alcuni geografi: Mountz, 2011; Mountz e Hiemstra, 2014; Gill et al., 2018). Ascoltando la storia di Ahmed – e le numerose altre che avrei sentito in seguito – divenni sempre più consapevole dell'espansione dello spazio liminale che le politiche di frontiera del Mediterraneo stavano aprendo in quel momento, le quali– a mio avviso – richiedevano una riflessione critica. Come ha affermato la nostra collega Cristina Lombardi-Diop e membro del Black Mediterranean Collective che in seguito abbiamo formato insieme, le traiettorie di rifugiati africani come Ahmed dimostrano che le vite che prendono forma nel contesto di storie coloniali di dominio e schiavitù, spesso silenziate deliberatamente, costituiscono un passato che non è in realtà passato e alle spalle. Piuttosto, accendono i riflettori su uno stato di reiterazione della subordinazione attraverso apparati di sorveglianza, contenimento, detenzione, sfollamento e lavoro forzati e disumanizzazione (Lombardi-Diop, 2021: 4; corsivo mio).

Lo scambio che avevo avviato con con Camilla Hawthorne dopo aver letto un paio di suoi interventi nel sito web lamacchinasognante.com con Pina Piccolo come co-autrice, mi ha permesso di superare la disillusione seguita al primo momento di entusiasmo ed eccitazione sprigionati dalle esperienze di occupazione e dalle considerazioni che ne avevo tratto.

Eccitazione, perché sapevo di essere sulle tracce di qualcosa di nuovo; disillusione, perché – come Camilla – mi sono spesso sentito piuttosto isolato e incompreso quando condividevo idee sul Mediterraneo Nero con attivisti e accademici. Ciò particolarmente in Italia, Paese in cui il dibattito, così come le rappresentazioni della migrazione, tendono ad essere estremamente polarizzati, e si riscontra chiaramente una mancanza di spazio per le voci della diaspora che consentirebbe loro di raccontare la loro parte della storia dal loro punto di vista. Il contenimento attivo, la disumanizzazione, la detenzione, gli sfollamenti e i lavoro forzati continuano a costituire il vissuto che molti migranti, immigrati e italiani Neri si trovano a dover affrontare quotidianamente. Tali esperienze tendono a essere rappresentate nei media e nel discorso attivista in termini oppositivi: o come segni di vittimismo abietto o come atti di resistenza passiva. Con Camilla eravamo d'accordo nel riconoscere che tale abitudine a cristallizzare l'esperienza Nera nell'attuale costellazione del respingimento europeo e della repressione delle politiche di frontiera segnala sia la persistenza dell'egemonia culturale europea bianca, sia la continuità della rimozione delle storie coloniali europee nel presente. In Italia, in particolare, questa tendenza è purtroppo ancora molto forte, come hanno recentemente osservato alcuni tra i pochissimi storici che hanno preso in considerazione il fenomeno (ad esempio Del Boca, 2020; Filippi, 2021). Grazie al collettivo che abbiamo costituito, il Black Mediterranean Collective, troviamo il coraggio e la forza per dare nuovo respiro a queste discussioni e per fare da cassa di risonanza a dibattiti che vanno al di là della nostra attenzione iniziale rivolta alla Nerezza e al Mediterraneo.

Leggendo l'intervento di Camilla, immagino che il suo legame con gli studi del Mediterraneo Nero contempli due contributi principali alla nostra comprensione del capitalismo razziale e della stratificazione razziale della cittadinanza in senso lato.

Una prima importante osservazione riguarda quelle che si possono considerare le fondamenta razziali del capitalismo. Gli studiosi che affrontano l'argomento dal punto di vista dei Critical Race Studies fanno notare che il capitalismo come sistema è stato costruito sulla razzializzazione delle popolazioni e dell'ambiente, a partire dagli albori della Modernità fino al presente e al futuro. Sin dal suo inizio in quella che viene considerata l'epoca Moderna della storia europea, la razzializzazione è stata una strategia chiave per posizionare in una scala differenziata gli esseri umani rispetto allo Stato. La razzializzazione è stata anche fattore scatenante per le profonde trasformazioni geologiche ed ecologiche necessarie all'emergere e persistere della società moderna (vedi ad esempio Gilmore, 2002, 2007; Pulido, 2015, 2016; Saldanha, 2019).

A dirla tutta, la terminologia attinente al Mediterraneo Nero non era poi tanto nuova, a differenza di quanto non avessi pensato inizialmente. Studiosi marxisti Neri come Cedric Robinson (1983) e Robin D. G. Kelley (2017) utilizzano il concetto di Mediterraneo Nero per spiegare come i regimi di razzializzazione costituissero le precondizioni di base per l'emergere del capitalismo moderno. Mentre gli storici di impronta tradizionale continuano a lodare le fitte reti di scambio interculturale, commercio e mobilità esistenti sin dai tempi dell'antichità greca, pochissimi autori sottolineano le storie spesso trascurate di violenza razziale, schiavitù e pionierismo nella coltura delle piantagioni che ebbero come teatro il Mediterraneo3. È nei loro riverberi contemporanei che bisogna individuare il crescente interesse per il Mediterraneo Nero come campo di scambio accademico, artistico e di attivismo.

L'intervento di Camilla non solo offre la possibilità di identificare il Mediterraneo come luogo in cui il capitalismo razziale continua a manifestarsi ma ci fornisce anche gli elementi di replica agli studi sull'Atlantico Nero e alla loro insistenza nell'articolare la Nerezza in maniera radicalmente diasporica per quanto riguarda spazio e temporalità. Paul Gilroy, pioniere di tali studi, osserva l'emergere di una temporalità diasporica dall'esperienza della Tratta transatlantica degli schiavi (il cosiddetto “Middle Passage”) e cerca di concepire e raccontare la soggettività Nera negli interstizi dello sviluppo capitalista moderno.

Gli scrittori afroamericani, in particolare quelli più vicini all'esperienza di schiavitù, come potrebbero essere W.E.B. Dubois o Richard Wright, ripudiarono la narrazione eroica della civiltà occidentale e la temporalità monumentale di progresso universale su cui essa poggia. Entrambi questi studiosi argomentavano invece che il mondo moderno fosse frammentato lungo assi costituiti dal conflitto razziale. Attraverso una rilettura del “Middle Passage”, proponevano una visione più eterogenea, una sorta di contro-modernità che era basata su esperienze e modalità di vita sociale non sincrone ed eteroculturali che si svolgevano in prossimità, ma partivano da una visione spazio-temporale radicalmente diversa: una visione basata, infatti, sull'esperienza della rottura e della frammentizzazione dello spazio e della concezione del tempo proprio attraverso il “Middle Passage”. Non solo le concezioni della modernità di questi intellettuali erano periodizzate in modo diverso ma erano anche scandite dal processo di acculturazione e terrore tra gli schiavi e i loro discendenti provocando una profonda destabilizzazione dell'Atlantico come sistema culturale e politico (Gilroy, 1993: 197).

Secondo la studiosa Katherine McKittrick, nella società americana contemporanea continua a persistere una “logica della piantagione” che produce modalità di vita differenziate e spazi di alterità (McKittrick, 2013: 3). Dialogando con il pensiero di questi studiosi e studiose, Camilla ci offre la possibilità di pensare alla persistenza dell'espropriazione e le sue differenziazioni, che continuano a separare l'umanità in cittadini “degni” che possono beneficiare degli utili del capitale e soggetti civili “indegni” o “non ancora” civilizzati che rimangono simultaneamente espropriati e isolati dai mezzi della produzione capitalistica. Ma ci invita anche a riflettere su quelle differenze che si manifestano al di là dell'Atlantico (e di una sorta di America-centrismo negli studi) che hanno finora dominato questo dibattito.

Un altro punto importante sollevato da Camilla (e che – ho notato – può suscitare qualche inquietudine nel mondo accademico germanofono) riguarda i fondamenti razziali della cittadinanza territoriale nazionale. La tendenza dominante è ancora quella di vedere il fascismo e il nazionalsocialismo, ossia il nazismo, come un'aberrazione della cittadinanza intesa come “il diritto ad avere diritti” – nella famosa definizione di Hannah Arendt (1949). Ma questa prospettiva è insufficiente per affrontare la persistenza dei problemi della disuguaglianza razziale. È indispensabile invece cercare di capire come la razzializzazione sia stata parte integrante del funzionamento degli stati-nazionali moderni da sempre. Uno degli obiettivi principali dell'apparato statale moderno è infatti costruire omogeneità attraverso i dispositivi disponibili al ramo esecutivo del governo e all'intervento burocratico. È precisamente attraverso l'istituzione di confini territoriali, le leggi che definiscono la cittadinanza, la polizia, la burocrazia e la definizione di categorie relative ai censimenti, i registri demografici e altri dispositivi governativi che gli stati moderni, ciascuno a proprio modo, imprimono il loro potere di escludere e includere, di classificare gerarchicamente, oltre che a mettere ai margini le popolazioni razzialmente ordinate.

In Italia, questo processo è diventato visibile attraverso la recente discussione pubblica sullo ius sanguinis, cioè la linea di sangue che impedisce ai figli della cosiddetta “seconda (e terza) generazione” nati da genitori immigrati di acquisire i diritti di cittadinanza (contrariamente agli italiani emigrati e i loro discendenti che possono dimostrare l'appartenenza della loro stirpe alla nazione). Gli attivisti immigrati rivendicano l'inclusione dei cosiddetti figli di “seconda” e “terza” generazione di genitori che non dispongono di tale linea di sangue italiana ma le loro richieste sono spesso contestate e rinviate in parlamento e nel dibattito pubblico. La riluttanza dei legislatori italiani a considerare altre fonti di cittadinanza riflette una stratificazione razziale del “diritto ad avere diritti” che non è però unico in Italia ma ha acquisito importanza in tutta Europa. Lo studioso David Theo Goldberg – dal cui lavoro attinge Camilla – evoca specificamente due ideologie di ordine razziale inerenti alla concezione della cittadinanza nazionale negli stati-nazionali europei. La prima, il naturalismo, fissa le popolazioni razzializzate in un'identità premoderna, le definisce incapaci di progresso per loro natura. La seconda, lo storicismo, a testimonianza della vittoria del progresso, eleva gli europei sopra “altri” primitivi o sottosviluppati (Goldberg, 2002: 43). Quando si riconsidera la storia dell'espansione degli stati-nazionali in alcune delle “periferie” rurali europee (concetto a sua volta naturalista, quid Goldberg) e attraverso il colonialismo, diventa davvero evidente la profondità del coinvolgimento dei legislatori e dei pianificatori dello Stato nelle attività di razzializzazione, secondo lo Zeitgeist del liberalismo del diciannovesimo secolo e la fede nel progresso basato sul razionalismo. Solo in anni recenti gli storici italiani stanno scoprendo la peculiarità dei modi in cui tropi quali “arretratezza”, “inciviltà” e “sottosviluppo” attraversano come un filo rosso i tentativi dello Stato di conquistare, pacificare e sviluppare, prima, il Sud rurale del Paese, e poi le colonie nel Corno d'Africa (vedi ad esempio Filippi, 2021). Tali assegnazioni stereotipate non erano solo funzionali all'espansione del capitalismo4 ma hanno anche introdotto una gerarchia di appartenenza e di italianità (o, del resto, francesità e britannicità) che rimane radicata in questi preconcetti liberali.

Non è una coincidenza, ad esempio, scoprire che le stesse leggi fasciste che vietavano agli italiani delle zone rurali di trasferire la propria residenza nelle città (i Provvedimenti contro l'urbanesimo del 1939) continuarono ad essere applicate dai governi del dopoguerra fino a metà anni Sessanta, spingendo così i tanti emigrati dal Sud d'Italia verso una condizione di informalità mentre cercavano lavoro nel nord industrializzato. Sebbene ampiamente ignorata come un “curioso attaccamento al passato” (per usare le parole di Braudel, 1995: 754; cfr. nota 3), questa stratificazione dei diritti di cittadinanza sembra in effetti fornire la prova della normalità e delle modalità di routine con cui il governo statale attivamente riproduce le disuguaglianze sociali e ambientali nella sua ricerca di omogeneità e superiorità politica (vedi anche Pulido, 2016) Alcuni (ma ancora una volta pochissimi) studiosi italiani hanno iniziato a sostenere che il miracolo economico italiano degli anni Sessanta e Settanta non è servito tanto ad elevare l'Italia ai primi posti tra le potenze economiche europee quanto a riprodurre la disuguaglianza storica tra il Nord e il Sud “in una diversa maniera” (vedi ad esempio Alasia e Montaldi, 2010 [1960]). Allo stesso modo, scrive un nostro collega del Collettivo del Mediterraneo Nero, la condizione di invisibilità strutturale dei migranti di prima generazione provenienti dalle ex colonie italiane dell'Etiopia e dell'Eritrea ha continuato a caratterizzare la loro differenziazione istituzionale in termini di accesso al welfare state fino a metà anni `80 (Grimaldi, 2021)5. Come per gli immigrati dell'Italia meridionale, quindi, fenomeni quali l'occupazione o l'affitto di case decrepite non solo costituivano una risposta immediata allo status deteriore di cittadinanza di questi ex sudditi coloniali ma è servito anche a rafforzare la relazione isomorfa tra migrazione, stato di cittadinanza e classe sociale che è indicativa del modo in cui lo Stato-nazione italiano ha ampliato la sua autorità dalla metà dell'Ottocento. Espressioni di italianità Nera come quelle indicate da Camilla ci aiutano a decostruire tale autorità “nazionale”, e nel contempo anche a collegare in maniera radicale i suoi aspetti critici a una narrazione fenomenologica ed esperienziale del rapporto tra i confini territoriali e i corpi che tale autorità pretende di includere ed escludere.

Ciò che ci preme ricordare qui è che la cittadinanza territoriale nazionale ha sempre costituito una modalità caratterizzata da diseguaglianza e stratificazione per istituzionalizzare l'appartenenza a quella comunità politica chiamata lo Stato-nazione moderno. Lo scrive Friedrich Kratochwil (1994: 486) quando afferma che “[è] forse meglio concepire la cittadinanza come uno spazio all'interno di un discorso sulla politica che istituzionalizza identità e differenze tracciando dei confini, sia in termini di appartenenza che in termini di pratiche politiche concrete legate a tale appartenenza” (corsivo mio; vedi anche Staeheli, 2010). Questa, a mio avviso, più attiva interpretazione di cittadinanza come diritto alla rivendicazione di diritti (Isin e Nielsen, 2008), ci offre la possibilità di meditare sui confini della cittadinanza, di considerare come la sua definizione consenta di plasmare e di distruggere attivamente le diverse categorie di cittadinanza, come le categorie di appartenenza e adesione siano imposte e negoziate in tempi e luoghi determinati, piuttosto che presumere che tutti noi sottoponiamo la nostra identità, per contratto sociale o per nascita, alla Volontà della Nazione6. Le ideologie e le politiche che stanno alla base della cittadinanza moderna di uno Stato non sono solo fondamentalmente misogine e razziste ma sono anche trasversali nella misura in cui esse legittimano la trasformazione attiva dei corpi in strumenti modellati sui bisogni dello Stato-nazione. Con l'ampiezza del suo orizzonte, il Mediterraneo Nero ci offre la possibilità di analizzare le mediazioni in corso all'interno di questi confini strumentali, mostrandoci anche il percorso verso futuri alternativi. Oltre a segnalare storie violente di esclusione, il Mediterraneo Nero ci offre una portata sia analitica che pratica per immaginare fonti di cittadinanza diverse, in grado di andare oltre lo stato di eccezione nazionale e territoriale.

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1

Il primo a utilizzare pubblicamente il termine “ Black Mediterranean ” fu Cedric Robinson (1983).

2

In uno splendido documento video intitolato “Stanze” (2010) Gianluca e Massimiliano De Serio rievocano la memoria storica di questo luogo con la collaborazione della scrittrice e attrice italo-somala Suad Omar. Attraverso le voci dei migranti somali che vi risiedevano nel 2009, utilizzando lo strumento della cultura orale, gli autori offrono una piattaforma per rivalutare la sua storia contestata integrandola con le esperienze dei suoi abitanti sradicati. Nel 2011 il video vinse il Premio Italia Arte Contemporanea del MAXXI, Roma.

3

Gli storici riconoscono ora che le colonie italiane del Mediterraneo durante il tardo medioevo offrirono i modelli su cui in seguito si sarebbero basati i sistemi avanzati di piantagione delle colonie iberiche atlantiche (Hunwick, 1992; Verlinden, 1977; Blackburn, 1997; Curtin, 1998). Ma il paradigma che continua a dominare la storiografia sconfessa ancora tale storia come pilastro centrale del capitalismo razziale. Nella sua opera completa sul Mediterraneo, ad esempio, Fernand Braudel include la voce “schiavi” in una pagina dell'indice, pur finendo per liquidare la schiavitù nel Mediterraneo occidentale e orientale come “un curioso attaccamento al passato” (Braudel, 1995: 754). Eppure poche righe dopo, scrive che “la schiavitù era una caratteristica strutturale della società mediterranea” (Braudel, 1995: 755; citato in Lombardi-Diop, 2021 sopra citato).

4

Nel pensiero liberale lo sviluppo si traduce in un processo lineare indicato dalla misurazione dei livelli di deprivazione rispetto a questo ideale imposto. L'obiettivo dello stato-nazionale è applicare il pensiero razionale e scientifico verso una serie di standard prestabiliti che privano simultaneamente persone di culture diverse dell'opportunità di definire i termini della loro vita sociale, scrive Esteva (1987).

5

Nel 1978 solo il 10 %–15 % degli eritrei e degli etiopi poteva permettersi un appartamento privato. Gli altri condividevano stanze con connazionali o facevano affidamento su pensioni, comunità religiose e dormitori pubblici. Un fenomeno molto diffuso fu, inoltre, l'occupazione irregolare di case vuote. Nel 1982, circa il 35 %–40 % degli eritrei a Milano erano abusivi (per riferimenti e ulteriori dettagli vedere Grimaldi, 2021).

6

“Stato-nazione significa uno stato che fa della natività o della nascita (cioè della nuda vita umana) il fondamento della propria sovranità”, afferma il filosofo italiano Agamben (1996: 93). La sua osservazione è spesso usata per argomentare l'annientamento della possibilità di vita al di là della vita politica o preclusione dell'umanità dalla vita politica del cittadino. A titolo indicativo, il filosofo ha rifiutato di firmare una petizione per l'applicazione dello ius soli (o diritto di nascita) per i bambini immigrati in Italia – perché, nelle sue stesse parole, non sottoscrive “l'idea stessa di cittadinanza” (Agamben, 2017).