Articles | Volume 77, issue 4
https://doi.org/10.5194/gh-77-547-2022
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22 Dec 2022
Standard article |  | 22 Dec 2022

Dal Lebensraum allo spazio vitale – la ricezione politica del pensiero di Ratzel in Italia, 1900–1943

Nicola Bassoni
Abstract

The debate on the political role of Ratzel's thinking during the first half of the 20th century usually focuses on Nazi Germany and the concept of Lebensraum, but provides little information about its reception in other linguistic contexts. In order to fill this gap, the paper explores the re-elaboration of Ratzel's political geography in Italy from the beginning of the 20th century to the end of the fascist period, when the term of “spazio vitale” (living space) became a key element of the Italian projects for the postwar “new order”. The paper argues that the Italian understanding of Ratzel oscillated between irredentist and imperialist interpretations, deeply influenced by the domestic and international situation. Moreover, it traces how the second interpretation emerged at the very beginning of the century – long before Rudolf Kjellén and Karl Haushofer – and gained momentum in the 1930s, as Italian intellectuals used the concept of living space to promote expansionism and the trilateral rapprochement with Germany and Japan.

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1 Introduzione

Il dibattito sul ruolo politico delle idee di Friedrich Ratzel assomiglia spesso alla ricerca di un colpevole, o alla difesa di un imputato, e si è concentrato soprattutto sul concetto di Lebensraum e sulla sua appropriazione da parte dell'ideologia nazionalsocialista, dando luogo a interpretazioni divergenti e spesso contraddittorie (Halas, 2014:12), collocate tra i due poli di quanti hanno sottolineato la natura scientifica della sua opera, estranea ai fini per cui è stata applicata (Troll, 1947; Hunter, 1983), e quanti vi hanno invece individuato una pericolosa commistione tra scienza e politica, capace di offrire una base teorica all'espansionismo tedesco (Smith, 1980). Col tempo si è andata affermando una lettura più articolata del lascito politico ratzeliano che, senza negare il carattere imperialista e l'elasticità semantica del concetto di Lebensraum (Klinke e Bassin, 2018), ha messo in luce le interpolazioni di Rudolf Kjellén e Karl Haushofer (Abrahamsson, 2013; Halas, 2014), rigettando l'idea di un'influenza diretta sull'espansionismo nazista e rilevando come quest'ultimo – basato sul razzismo biologico e diretto verso l'Europa orientale – fosse incompatibile con l'orientamento ecologico e il colonialismo extra-europeo propri dell'opera ratzeliana (Bassin, 1987; Halas, 2014). La confutazione di una genealogia lineare tra Ratzel e ideologia nazista (Abrahamsson, 2013:7) ha portato sia a proposte per una rivalutazione della dimensione epistemologica e dell'attualità del suo pensiero (Natter, 2005; Verne, 2017; Stogiannos, 2017), sia a tentativi di ripensarne l'influenza sulla politica coloniale tedesca e sul clima politico del periodo interbellico (Danielsson, 2009; Murphy, 2018).

Tuttavia, l'intero dibattito si è focalizzato quasi esclusivamente sulla Germania, lasciando irrisolta la questione – tutt'altro che irrilevante per una valutazione complessiva – di quali furono gli esiti politici del confronto con Ratzel in altri contesti nazionali (Halas, 2014:15). Tra questi il caso italiano risulta particolarmente interessante, non soltanto perché lo sviluppo politico ed economico dell'Italia dalla seconda metà del XIX secolo presenta significativi punti di contatto con quello tedesco, riconducibili alla comune appartenenza alla categoria dei latecomer del processo di industrializzazione e dell'espansione coloniale – un ritardo che venne declinato, in entrambi i paesi, nel bisogno di acquisire nuovi spazi per l'approvvigionamento di materie prime e allocare un presunto eccesso di popolazione –, ma anche perché lo stesso concetto di spazio vitale, come traduzione italiana di Lebensraum, divenne uno degli elementi centrali del dibattito politico e intellettuale dell'Italia fascista nel 1939–1943, ossia in un contesto ideologico caratterizzato tanto da sostanziali affinità con quello nazionalsocialista quanto da alcune differenze decisive, quali la minore pervasività delle teorie biologico-razziali e la persistenza di ambizioni coloniali nelle regioni tradizionali dell'imperialismo europeo.

Ambedue queste ragioni hanno però contribuito a rendere la ricezione politica del pensiero di Ratzel in Italia una questione controversa, che implica spesso un giudizio sulla collocazione degli ambienti intellettuali italiani in rapporto ad altre tradizioni europee e sugli intrecci tra sapere e potere in un periodo che va dal consolidamento dello stato unitario alla Seconda Guerra Mondiale. Una sovrapposizione tra aspetti storico-culturali, epistemologici e politici che emerse già nei primi anni Sessanta, quando Lucio Gambi aprì una vivace polemica con la “generazione dei geografi nati fra il “90 e il '15”, accusati di aver coltivato una visione ratzeliana, “unitaristica e integrale” della geografia, la cui concezione organicista dei rapporti tra territorio e popolazione avrebbe favorito l'entusiastico sostegno al regime fascista (Gambi, 1973:38–64). L'impostazione di Gambi, influenzata dal clima culturale del tempo e della geografia francese, è stata in seguito sottoposta a severe critiche che, senza mettere in discussione l'importanza del pensiero ratzeliano in Italia (Micelli e Zilli, 2001; Antonsich, 2009; Proto, 2012; Lando, 2020), hanno contestato l'immagine determinista di Ratzel (Farinelli, 1992; Marconi, 2013; Lando, 2020) e circoscritto l'effettiva ricezione al periodo antecedente la Prima Guerra Mondiale (Micelli e Zilli, 2001) e al concetto di regione naturale (Rosenboim, 2015; Dai Prà, 2018). In questo senso il confronto con Ratzel in Italia sarebbe stato parziale, riguardando l'interazione tra fattori fisici e umani nel formare lo spazio geografico, ma ignorando l'analisi del movimento, i processi di espansione e l'idea di spazio vitale (Marconi, 2011; Rosenboim, 2015). Un'interpretazione che sarebbe confermata anche dagli studi sul concetto fascista di spazio vitale (Rodogno, 2003; Amore Bianco, 2018), dove il repentino emergere del termine con connotati apertamente espansionistici nei tardi anni Trenta viene considerato un prestito dall'ideologia nazista.

In quanto composto da due momenti distinti e privi di continuità il caso italiano deporrebbe quindi a favore della neutralità politica del pensiero ratzeliano – volto, seppur sulla base di un fraintendimento, in una teoria dell'unità nazionale entro i confini chiari e ben definiti della regione naturale – e della distorsione in senso espansionista operata nella Germania nazista. Tuttavia queste conclusioni non possono essere considerate definitive, perché non si basano su uno stretto dialogo tra storia della geografia e studi sul fascismo, paragonabile a quanto avviene per il contesto tedesco, ma sui risultati di due indirizzi di ricerca distinti e non sufficientemente comunicanti, con il primo che privilegia lo sviluppo dei percorsi intellettuali interni alla disciplina e il secondo che adotta un quadro cronologico ristretto al 1939–1943. Il fine delle prossime pagine sarà dunque quello di tentare una ricostruzione della ricezione politica di Ratzel in Italia durante la prima metà del XX secolo che, unendo i due piani, prenda in considerazione sia il confronto di lungo periodo degli ambienti culturali italiani – non solo geografici – con quel corpo dottrinario da cui il concetto di spazio vitale era emerso, sia il ruolo svolto dai mutamenti del contesto interno e internazionale nell'influenzare questo processo.

2 La lotta per lo spazio della “grande proletaria”

La ricezione di Ratzel in Italia cominciò negli ultimi due decenni dell'Ottocento con alcuni tentativi di applicazione della geografia alla storia (Porena, 1884), la traduzione della Völkerkunde (Ratzel, 1891–1896) e una generica affermazione dei legami tra popolo e territorio (Porena, 1892; Cossu, 1898), ma anche con una precoce critica a Ratzel per aver trascurato “l'azione che gli avvenimenti storici subordinati all'ambiente geografico esercitano sulla vita ulteriore dei popoli” (Mondaini, 1898b:330). Al contempo, come in Francia e per influenza diretta della tradizione francese, emerse un dibattito sui fattori ambientali e sulla morfologia sociale di Durkheim in seno alla sociologia italiana (Ratzel, 1898; Durkheim, 1900; Schiattarella, 1900) che si caratterizzò, come nel caso francese, per una lettura selettiva delle sue opere (Robic, 2014).

I principali lavori di sintesi sul pensiero ratzeliano vennero tuttavia pubblicati ai primi del Novecento, soprattutto per iniziativa del geografo Olinto Marinelli, figlio e allievo di Giovanni Marinelli. Nella sua interpretazione la geografia di Ratzel era una “grande teoria biologica” (Marinelli, 1902:224) incentrata sull'idea di “lotta per lo spazio” come “causa prima dell'evoluzione”, su una visione organica dello Stato con “il suo fondamento corporeo nel suolo” (Marinelli, 1903:273) e su una concezione della civiltà come radicamento nel territorio (Marinelli, 1905a:15). Il concetto di spazio vitale era presentato da Marinelli nella formulazione essenziale di Ratzel, ossia come bisogno di uno spazio per l'abitazione, uno per il nutrimento e uno per la moltiplicazione, da cui derivava la “tendenza ad accrescersi” di ogni forma organica e la lotta della vita contro altra vita per la conquista di tale spazio (Marinelli, 1905b:118). Tuttavia, pur riconoscendo che “[u]no stato è vitale quando ingrandisce, è in distruzione quando diminuisce l'estensione” (Marinelli, 1903:274) e che “[o]gni popolo vitale tende a ingrandire”, Marinelli sottolineava come fosse il crescente radicamento di una popolazione “entro il quadro di un territorio naturale” a favorire la nascita dell'individualità storica, facendo della nazione l'apice dello sviluppo politico (Marinelli, 1905b:112).

Oltre a Marinelli, e con un accento in parte differente, un importante contributo alla diffusione dell'opera di Ratzel in Italia venne dal geografo Renato Biasutti, coetaneo di Olinto e anch'egli allievo di Giovanni Marinelli. Al centro dell'interpretazione proposta da Biasutti si trovava la visione della storia come “movimento dei popoli”, un movimento – tanto interno quanto esterno – che dipendeva da due forze: “gl'impulsi dello spirito e della volontà, che è la vita stessa, e le azioni del suolo, cui la vita è legata” (Biasutti, 1905:285–286). Sebbene “[i]l progresso della coltura non emancipa l'uomo dal suolo […] ma ve lo unisce per vie più svariate e molteplici”, Biasutti presentava una lettura particolarmente non-determinista di Ratzel, in cui il territorio dava “direttive e determinatrici”, ma l'uomo era “l'elemento propriamente dinamico”, sempre capace di “mutar[e] il significato storico” del fatto geografico (Biasutti, 1905:286–287). Der Lebensraum era quindi presentato come un saggio “di questa scienza destinata a trattare dei rapporti che tutti gli esseri terrestri […] hanno comuni con le proprietà fondamentali del pianeta”, dove “[l]'acquisto di spazio è il carattere tipico della vita: ogni aumento della massa organica, ogni accrescimento, ogni propagine, si traduce in movimento: e ogni movimento è conquista spaziale” (Biasutti, 1905:288–289). Seguendo Ratzel, per Biasutti l'espansione era colonizzazione, da considerarsi come un fenomeno tanto biologico quanto economico – ossia come prodotto dell'“accrescimento organico” di un popolo, e della necessità di assicurarsi nuovi spazi per la soddisfazione dei bisogni –, ed era pertanto legata al lavoro, inteso come utilizzazione di risorse, che poteva determinare una “superiorità nell'uso del suolo” capace di eliminare le culture indigene (Biasutti, 1901; Biasutti, 1904a:321–325; Biasutti, 1904b:391). Una lettura simile della geografia politica di Ratzel in chiave coloniale venne proposta anche dal geografo Ricchieri (1899a, b) e dallo storico Mondaini (1906), mostrando come dal confronto con Ratzel potessero risultare esiti politici divergenti, con Ricchieri anti-colonialista e critico dell'occupazione della Libia, mentre Mondaini, che aveva studiato a Lipsia con Ratzel, promosse l'idea di una “colonizzazione scientifica” e partecipò alla fondazione dell'Istituto coloniale, continuando a sostenere l'espansionismo negli anni Trenta e intervenendo nel dibattito sullo spazio vitale del 1939–1943.

Fu inoltre in questo periodo che vennero pubblicate le principali traduzioni italiane delle opere di Ratzel (1905, 1906, 1907, 1909, 1914), tra cui La terra e la vita, dove compariva una prima versione di Lebensraum come spazio vitale (Ratzel, 1907:715). Questo interesse per Ratzel in Italia – particolarmente evidente nel periodo 1905–1909 –, se dipese certamente dal significato della sua opera nell'ammodernamento della geografia italiana (Micelli e Zilli, 2001; Proto, 2012), non era neppure estraneo al clima politico del paese nel primo decennio del Novecento. La sconfitta militare di Adua e quella diplomatica di San Mun avevano frustrato le ambizioni coloniali italiane ed erano state imputate all'“ignoranza” delle classi dirigenti e alla mancanza di uno “spirito geografico” nazionale (Ricchieri, 1897:264; Musoni, 1904:202–203), mentre proprio l'insegnamento di Ratzel, dimostrando “le basi geografiche della forza politica” ed educando al “senso geografico”, avrebbe potuto “guidare uno stato verso una futura grandezza” (Marinelli, 1903:277). Nel 1906 venne creato l'Istituto coloniale di Roma e, pochi anni prima, era nato a Firenze un movimento nazionalista che, animato da Enrico Corradini e forte dell'impressione suscitata dalla Guerra Russo-Giapponese, promosse una campagna per il rilancio dell'attività coloniale e per un radicale rinnovamento nazionale (Gentile, 2003:25–27).

Due interventi del giurista Enrico Catellani permettono di individuare un punto di contatto tra la ricezione di Ratzel, le rivendicazioni del nazionalismo corradiniano e la propaganda coloniale del periodo: un articolo del 1905 e una conferenza all'Istituto coloniale nel 1907. Catellani indicava la geografia politica di Ratzel e la new geography di Mackinder, nonché il sistema scolastico tedesco e giapponese, come i modelli da seguire per educare il popolo allo “studio accurato delle attuali condizioni politiche del mondo”, seguendo il motto: “per agire patriotticamente, dovete abituarvi a pensare geograficamente” (Catellani, 1905:1, 14, 17–18, 29), ripreso e ripetuto dal senatore Giuseppe Vigoni al ministro degli Esteri Tommaso Tittoni il 13 giugno 1905 (Senato del Regno, 1905:1420). L'obiettivo coloniale indicato dai nazionalisti era la Libia e, per Catellani, tale rivendicazione era giustificata dall'“analogia geografica”, nel caso tra Giappone e Corea, ossia dalla necessità di occupare la sponda opposta del Mediterraneo “per poter completare la difesa del territorio e la tutela del proprio commercio” (Catellani, 1905:22–23). L'espansione coloniale era quindi presentata come una necessità, sulla base di quella “legge storica, tanto bene studiata e formulata dal Ratzel, che impone ai popoli più vitali d'espandersi per non correre pericolo d'asfissia, di assicurarsi ampiezza di spazio per non essere poi atrofizzati nelle strette d'un campo insufficiente d'attività” in un XX secolo che “sarà un periodo di aspre lotte economiche e commerciali, e perciò sopratutto un periodo di rivalità fra gli Stati per la conquista dello spazio” (Catellani, 1907:6–7, 21).

Argomenti simili circolavano anche nella stampa nazionalista, dove la Libia era presentata come l'“appendice africana” dell'Italia, il cui possesso avrebbe permesso di controllare “ambo le porte […] del Mediterraneo orientale” (Castellini, 1911), mentre lo “spirito di espansione” era considerato la “condizione indispensabile alla vita” (L'Idea Nazionale, 1911a). I nazionalisti corradiniani, inoltre, vedevano Germania e Giappone come modelli per il rinnovamento nazionale e sostenevano le rivendicazioni coloniali ricorrendo tanto alla retorica del mare nostrum (L'Idea Nazionale, 1911b) quanto a una visione dell'Italia come “nazione proletaria”, bisognosa di spazio, e una rappresentazione dell'Africa come spazio senza popolo (Corradini, 1911). Il coevo dibattito geografico sosteneva, ad eccezione di Ricchieri, che la Libia fosse la soluzione per i problemi demografici italiani e vi fossero utopistiche possibilità di popolamento (Jaja, 1911:1349). I nazionalisti ripresero spesso le tesi dei geografi per dare dignità scientifica alle proprie rivendicazioni (Castellini, 1911) e, sebbene i riferimenti diretti al pensiero di Ratzel fossero assenti e non comparisse mai il concetto di spazio vitale (Kallis, 2000:47–48), fu con il movimento corradinano che si affermò una visione popolazionale del colonialismo italiano, con importanti ripercussioni sull'espansionismo fascista.

3 Ratzel come spiegazione e causa della guerra

La Prima Guerra Mondiale fu uno spartiacque, non solo nella storia culturale europea e nello sviluppo politico dell'Italia, ma anche nell'interpretazione del pensiero di Ratzel, dove emersero due tendenze apparentemente contraddittorie. Da una parte, in particolare durante la fase della neutralità, è possibile rilevare il ricorso alle categorie della geografia politica ratzeliana per spiegare le cause del conflitto e sostenere le ragioni dell'intervento. Ad esempio, secondo il geografo Goffredo Jaja, vicino ai nazionalisti e all'interventismo triplicista, la guerra era il prodotto del diverso sviluppo demografico dei paesi europei, il quale a sua volta dipendeva “da necessità e da circostanze di ambiente naturale e sociale”, e rispondeva al “bisogno [di] espansione” dei “popoli giovani”, prolifici ma stretti in “confini […] angusti”, ossia alla disparità tra l'aumento di popolazione e i limiti di un territorio e della soddisfazione dei bisogni economici che se ne poteva trarre (Jaja, 1914:362, 368–370, 372). Argomenti simili venivano presentati in chiave anti-neomalthusiana anche dal demografo e in seguito fondatore dell'Istituto Centrale di Statistica Corrado Gini, secondo cui “si guerreggia perché le nazioni più giovani, accrescendosi in misura maggiore e non potendo espandersi in modo adeguato entro gli attuali confini, si trovano più e più a disagio, e, aumentando in forza, vantano sempre nuovi diritti” (Gini, 1915:23). Ancora nel 1917, la guerra era per il geografo Francesco Musoni “una delle forme di lotta per l'esistenza comuni a tutte le specie” e corrispondeva a “ciò che gli antropogeografi chiamano lotta per la conquista dello spazio”. Richiamandosi esplicitamente a Ratzel, per Musoni la “tendenza ad abbracciare territori sempre più estesi […] è nell'essenza stessa del progresso ed è elemento di forza per i popoli”, mentre “l'arresto di sviluppo vorrebbe dire […] regresso e quindi decadenza ed avviamento alla fine”. Su queste basi Musoni invocava un'espansione italiana nel Mediterraneo, anticipando alcuni motivi retorici tipici del discorso sullo spazio vitale fascista, come la visione dell'Italia “prigioniera del Mediterraneo” le cui chiavi, Suez e Gibilterra, erano tenute dalla Gran Bretagna (Musoni, 1917:113, 117–119, 123–127).

Dall'altra parte, il conflitto mondiale vide affermarsi l'immagine di Ratzel come teorico dell'imperialismo tedesco. Il legame tra pensiero ratzeliano e imperialismo era già stato sottolineato da Marinelli (1903) e Biasutti (1905), nonché in Francia da Jules Sion (Robic, 2014). Tuttavia, con l'entrata in guerra dell'Italia, “l'aggrovigliato sistema imperialista del tedesco Ratzel” (Rossi, 2018:138) venne esplicitamente annoverato tra le cause del conflitto, contrapponendo le sue idee sulle “condizioni geografiche della vita e dello sviluppo degli stati” alla teoria dei confini naturali (Marinelli, 1916a:6–7), e denunciando tanto le influenze pangermaniste sul suo pensiero, quanto la diffusione di quest'ultimo “fra le classi colte tedesche” che, secondo il geografo Almagià (1916:378), avrebbe “contribuito non poco a creare quell'ambiente di sentimenti e di opinioni che ha massimamente determinato l'odierno grande conflitto europeo”. Posizioni simili vennero espresse anche da Musoni (1917:118) e dal geografo Revelli (1918:223–224, 1919:401) mostrando, nel primo caso, come l'uso di concetti ratzeliani per spiegare la guerra e giustificare l'espansione italiana non escludesse necessariamente la condanna del carattere imperialista delle sue teorie.

L'interazione tra questi due aspetti permette di comprendere l'atteggiamento degli intellettuali italiani verso il pensiero di Ratzel nel primo dopoguerra, ben sintetizzato da Almagià: “Le dottrine del Ratzel debbono essere temperate, rivedute in parte e soprattutto integrate tenendo conto di elementi lasciati dal geografo tedesco troppo in seconda linea o di problemi nuovi che ora si affacciano nel campo di questa scienza; ma non può dirsi che l'edificio dottrinale del Ratzel sia crollato e che esso fosse fondato sulla sabbia” (Almagià, 1923:759).

In un periodo che, dal punto di vista disciplinare, vide diversi tentativi di definire il profilo autonomo della geografia politica, l'insegnamento di Ratzel venne assunto come base della visione geografica dello Stato, sia riconoscendone il ruolo nel superamento di una concezione giuridico-statistica, sia adottandone diffusamente la definizione di “ein Stück Menschheit und ein menschliches Werk und zugleich ein Stück Erdboden” (Revelli, 1918; Almagià, 1923; Toniolo, 1923), che Almagià tentò di integrare, criticando la sopravvalutazione dell'“elemento suolo (territorio) nella indagine delle `condizioni geografiche dello sviluppo degli stati”' e aggiungendo un “elemento economico, cioè l'utilizzazione del suolo da parte degli abitanti” e un elemento giuridico, ossia il governo (Almagià, 1923:759–765). Al contempo, il processo di revisione delle teorie ratzeliane suggerito da Almagià – che si accompagnava a un avvicinamento alla geografia francese (Almagià, 1916, 1919, 1923) – promosse una visione “tendenziale” delle leggi di espansione degli Stati (Almagià, 1923:756–757) e una maggiore attenzione allo studio dei crescenti legami tra un popolo e il suo ambiente naturale (Marinelli, 1916a, b; Almagià, 1916; Revelli, 1918) che si traduceva nell'affermazione dell'individualità nazionale e promuoveva indagini volte ad accertare la “fisionomia etnica ed economica” del paese, come quella avviata da Biasutti sulle tipologie di abitazione rurale (Biasutti, 1926:14).

Ciò nonostante, sarebbe semplicistico affermare che l'interesse degli intellettuali italiani nel primo dopoguerra fosse esclusivamente rivolto agli elementi “statici” della geografia politica ratzeliana. Al contrario, fu proprio in questo periodo che Almagià cominciò a sviluppare l'idea di una “geografia politica dinamica” – confrontandosi proprio con il pensiero di Ratzel e, successivamente, con quello di Kjellén (Almagià, 1916, 1923) – e a seguire i primi sviluppi della geopolitica haushoferiana con un certo favore, che si tramutò in ostilità non appena divenne palese l'incondizionato appoggio della Geopolitik alle rivendicazioni tedesche riguardo Austria e Sud Tirolo (Bassoni, 2020:65–70). A ben vedere, il rapporto con le idee di Ratzel degli intellettuali italiani tra Prima Guerra Mondiale e anni Venti non può essere ridotto né a un'acritica prosecuzione di tendenze precedenti, né a un completo rifiuto, seguito alla constatazione del loro carattere imperialista e pan-germanista, ma rappresentò il tentativo di ripensare i fondamenti della geografia antropica e attualizzarne i contenuti in relazione alla specifica situazione interna e internazionale del periodo.

Se, infatti, la guerra e le questioni sollevate dai trattati di pace avevano riaffermato l'importanza politica della geografia e reso ancora più urgente l'esigenza di applicarne gli insegnamenti ai processi decisionali, il carattere irredentista della partecipazione italiana al conflitto e la stessa ridefinizione degli equilibri europei avevano fatto della nazione il cardine dell'ordinamento postbellico, mentre la dissoluzione degli imperi centrali e la relativa staticità del panorama internazionale degli anni Venti rappresentavano una palese confutazione di qualsiasi “legge di accrescimento” degli Stati. A questo si aggiungeva la condizione particolare dell'Italia come vincitrice “mutilata”, fautrice di un revisionismo moderato, soprattutto in Africa e sull'Adriatico, che tuttavia aveva molto da perdere nel caso di una revisione radicale dello status quo. Una situazione che affondava le radici nelle fasi conclusive della guerra mondiale e nello svolgimento delle trattative di pace, ma che venne ulteriormente esacerbata dall'instaurazione del regime mussoliniano, il quale si proclamava erede dell'irredentismo bellico ma anche artefice di una nuova grandezza nazionale che, al di là delle conclamate aspirazioni a un'egemonia mediterranea e rischiose avventure come quella di Corfù, si traduceva in una vaga volontà di potenza orientata soprattutto al rafforzamento interno – con le campagne ruralistiche e nataliste dettate dalla logica secondo cui il “numero è forza” e una popolazione prolifica potesse vantare un “diritto” all'espansione – ma priva di qualsiasi progetto coerente in politica estera (De Felice, 1974:143–152, 331–359).

4 La “coscienza geografica” dell'impero italiano

Dal 1929 tanto il panorama internazionale quanto quello interno cominciarono a mutare. Il fascismo si era consolidato e godeva di un consenso di massa e di un certo favore all'estero, di cui Mussolini era intenzionato a servirsi per ottenere quelle soddisfazioni coloniali mancate alla pace di Parigi. La crisi economica dello stesso anno, interpretata come una crisi morale e politica delle democrazie, offrì al regime l'opportunità di presentarsi come un'alternativa alla decadenza liberal-democratica con il lancio del corporativismo e l'“universalizzazione” del fascismo. Inoltre, mentre il partito nazista minacciava di prendere il potere a Berlino, tra il 1931 e il 1932 in Asia orientale l'armata del Kwantung invadeva la Manciuria, portando il Giappone ad abbandonare la Società delle Nazioni l'anno successivo, con quello che fu il primo colpo inferto all'ordine internazionale e una prova tangibile che i popoli “vitali” potevano ancora espandersi. Nel 1932 Mussolini riprese la carica di ministro degli Esteri e avviò un complesso gioco diplomatico per ottenere “mano libera” in Etiopia (De Felice, 1974:304–310, 365–418, 508–533). Nello stesso anno venne pubblicata la Dottrina del fascismo, dove l'espansione territoriale era presentata come una “legge naturale” dei popoli ed espressione della loro “vitalità” (Kallis, 2000:52). Al contempo, il regime avviò una campagna propagandistica a sostegno delle rivendicazioni italiane, che raggiunse l'apice nel 1934–1935, mobilitando gli intellettuali e facendo ricorso ai tipici argomenti dell'imperialismo nazionalista, come la pressione demografica, lo scontro tra popoli abbienti e popoli nullatenenti e la “prigionia” nel Mediterraneo (De Felice, 1974:602–623).

Tutto questo ebbe ripercussioni anche sul discorso geografico italiano, e ciò non tanto per una passiva aderenza alle direttive politiche del regime, quanto piuttosto perché un quadro interno e internazionale in rapida evoluzione contribuiva a rafforzare alcuni elementi già presenti nello sviluppo autonomo della disciplina, gettando nuova luce sulle dinamiche della politica estera e della vita degli Stati, e favorendo quindi un ripensamento del modo di concepire la natura e i compiti della geografia. In questo senso, il periodo 1929–1932 fu una fase di transizione, come emerge da alcune opere pubblicate durante questo triennio che – come nel caso del geografo De Marchi (1929:2, 29, 46, 48, 70) – sempre più spesso invocavano la “necessità di porre a base di una politica realistica la conoscenza geografica” e affermavano come uno “stato in fase di sviluppo […] necessariamente deve allargare il suo campo d'azione, deve espandersi”, ma presentavano tale espansione come la ricerca di una “condizione di equilibrio” in regioni naturali determinate fisicamente, mentre “la tendenza alla concentrazione degli Stati” era ancora considerata una deformazione prospettica dell'anteguerra, smentita dal conflitto e dai trattati di pace – un'opinione condivisa anche dallo storico e precursore della geopoliticaitaliana Morichini (1932:29). Un'attenzione particolare era poi rivolta alla dimensione economica dei problemi geografici, con Giorgio Roletto ed Ernesto Massi – direttori di Geopolitica dal 1939 – che tentarono di coniugare i concetti di “regione geografica”, “regione etnografica” e “regione economicamente armonica”, in una prospettiva che prendeva in considerazione anche l'idea di Lebensraum – inteso come “zona d'insediamento, regione economica e di comunicabilità” – di cui tuttavia evidenziavano l'intrinseca instabilità e lo scarso valore per la determinazione dei confini politici (Roletto e Massi, 1931:46–47, 67–68).

Dal 1932, sotto l'impressione degli eventi in Asia orientale, geografi come Jaja tornavano a parlare di “lotta per lo spazio” dei “popoli giovani”, considerata al pari di una lotta “per l'esistenza” giustificata dalla sovrappopolazione (Jaja, 1932:81–82), mentre la mobilitazione degli intellettuali in vista della campagna etiope rafforzò ulteriormente il richiamo al ruolo politico della geografia, sia come allargamento dell'“orizzonte geografico” (Biasutti, 1934:66), sia in una visione dello Stato come organismo che nasce, cresce, muore, “obbedendo a delle leggi che hanno nelle condizioni del suolo […] la loro radice”, e che “sostiene una lotta per l'esistenza e per lo sviluppo in concorrenza con altri organismi affini” (Almagià, 1936:5, 195–196). In questa lotta il numero era forza e la crescita demografica imponeva l'espansione, la quale seguiva “determinate tendenze, comuni in genere a tutti gli stati dotati di vitalità e di energia di espansione”, che corrispondevano sostanzialmente alle leggi indicate da Ratzel (Almagià, 1936:199-207). Al contempo cominciò in Italia una rivalutazione della geopolitica haushoferiana, che ebbe come principale protagonista Massi il quale, invertendo la precedente tendenza a contrapporre la scientificità di Ratzel alla politicizzazione di Haushofer (Bassoni, 2020:71–72), presentava la Geopolitik come una “scuola germanica neoratzeliana” che rispondeva alle necessità dell'ora presente (Roletto e Massi, 1931:31) e aveva “una base seriamente scientifica e una funzione da compiere” (Massi, 1932:174). Ricercando i “fattori di potenza” degli Stati e le “leggi geografiche dei loro rapporti reciproci” (Massi 1938a:196), la geopolitica haushoferiana era per Massi un coerente sviluppo della geografia politica ratzeliana, da cui traeva feconde intuizioni, come quella relativa alla tendenza della politica attuale “a risolversi in formazioni territoriali sempre più ampie” (Massi, 1938b:648).

A partire dal 1932 espressioni come “lotta per lo spazio” cominciarono nuovamente a diffondersi fuori dall'ambito geografico (Michels, 1932:606; Fornari, 1932:65), mentre sempre più spesso appariva la formula di spazio vitale, perlopiù in traduzioni di opere o dichiarazioni provenienti dalla Germania (Fassio, 1934:14; La Stampa, 1935; Pellicano, 1936:43). Infatti, per quanto questa fosse già comparsa nel 1907 e riapparsa nel 1928 (Bollettino della Società Geografica Italiana, 1928:640), fino agli anni Trenta il termine Lebensraum era stato reso come “spazio per la vita” (Almagià, 1916:374), “habitat” (Marinelli, 1905b:118; Marinelli, 1916b:114), “spazio di vita” (Revelli, 1918:227; Roletto e Massi, 1931:67) ed “ecumene” nazionale (Rubino, 1934:136). Ma fu solo dalla primavera del 1939 che il concetto di spazio vitale divenne una parola d'ordine del fascismo.

5 Lo spazio vitale nel dibattito sul nuovo ordine

Il 26 marzo 1939 Mussolini dichiarò che il Mediterraneo era “uno spazio vitale per l'Italia”. Questa appropriazione del concetto di Lebensraum da parte del “duce” – avvenuta pochi giorni dopo un incontro con i direttori di Geopolitica – deve essere contestualizzata negli eventi che andarono dall'occupazione tedesca di Boemia e Moravia a quella italiana dell'Albania, quando i timori mussoliniani per un'indipendenza della Croazia sotto l'ala protettrice della Germania si tradussero nella volontà di “accrescere la nostra statura nei confronti del nostro compagno dell'Asse” e di “stabilire le zone d'influenza e d'azione dei due Paesi” (De Felice, 1981:585–604). Il destinatario delle parole del 26 marzo era quindi la Germania, e la scelta di usare il termine spazio vitale era probabilmente un modo per farsi ben intendere a Berlino. In questo senso, l'adozione mussoliniana del concetto di spazio vitale rispondeva all'intenzione di affermare e difendere una propria sfera d'influenza, ma si traduceva anche in un'effettiva presa di possesso di questo spazio, il cui primo passo fu appunto l'occupazione dell'Albania – considerata da Massi “l'applicazione concreta del concetto dello `spazio vitale' del Popolo Italiano” (Massi, 1939a:206).

Da questo momento l'idea di spazio vitale si affermò nel dibattito pubblico e, con l'entrata in guerra dell'Italia nel giugno 1940, divenne una delle categorie fondamentali con cui elaborare i progetti per un “nuovo ordine” postbellico. Il confronto tra il concetto italiano di spazio vitale e quello tedesco di Lebensraum si è spesso concentrato sull'accezione prevalentemente economica del primo e sulla confusione che regnò in Italia tra l'idea di spazio vitale e quella di grande spazio (Antonsich, 2009; Amore Bianco, 2018), che tuttavia non furono affatto assenti nella controparte tedesca (Kletzin, 2000; Snyder, 2015). Inoltre, come per il Lebensraum, l'idea di spazio vitale implicava spesso la contrapposizione tra un ordine “naturale” da ristabilire e un sistema “artificiale” da abbattere – come per l'economista Mazzei (1941) o per il prefetto e propagandista Soprano (1942) – nonché la promessa di un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita della popolazione – espressa, ad esempio, da un influente giornalista e voce semi-ufficiale del regime come Gayda (1941). Dove le idee di Lebensraum e spazio vitale differirono radicalmente fu invece nella loro applicazione e nell'approccio alle questioni razziali (Rodogno, 2003:26–27).

Il dibattito italiano sullo spazio vitale fu estremamente variegato, e coinvolse geografi, demografi, economisti, giuristi, studiosi di politica internazionale, teorici del corporativismo e singoli intellettuali, nonché i periodici di Giuseppe Bottai, Critica Fascista e Primato, e la rivista personale di Mussolini, Gerarchia, ai quali si aggiunsero i gruppi universitari fascisti, che collaborarono soprattutto con geopolitici e corporativisti attraverso una serie di convegni svolti nel 1941–1942. Nel 1943 venne riorganizzato il Centro di studi e d'azione per l'ordine nuovo, con il compito di riunire e coordinare queste varie anime al fine di sviluppare una visione dell'assetto postbellico capace di concorrere con quelle proposte dalla Germania (Amore Bianco, 2018). Le principali influenze tedesche provennero dalla Geopolitik (Baumgarten, 1942), dalle teorie di Carl Schmitt (Schmitt, 1940; Perticone, 1940) e dagli studi macroeconomici (von Gottl-Ottlilienfeld, 1938; Gianturco, 1941), in un rapporto che non fu assolutamente unidirezionale, come testimoniano diversi casi di collaborazione tra istituti italiani e tedeschi nel quadro della politica culturale dell'Asse (Amore Bianco, 2018:140–141), oppure la ricezione del “punto di vista” italiano nella Zeitschrift für Geopolitik (Massi, 1939b).

L'eterogeneità dei partecipanti e delle influenze, assieme alla riluttanza del regime a fissare con precisione gli obiettivi bellici dell'Italia per non legarsi le mani nei confronti dell'alleato, contribuì a rendere vaghe e spesso contraddittorie tra loro le varie definizioni dello spazio vitale fascista – una circostanza spesso denunciata dagli stessi protagonisti, come l'economista Fossati (1941) o il geografo Nice (1943). Ciò nonostante, è comunque possibile individuare alcuni temi fondamentali e altrettanti nodi problematici che emersero ricorrentemente tra il 1939 e il 1943. In primo luogo, sebbene sia cominciato con un prestito dal lessico nazista e quindi con l'adozione del concetto di Lebensraum per come era stato rielaborato nella Germania interbellica, il dibattito italiano sullo spazio vitale vide alcuni richiami all'originale versione biogeografica formulata da Ratzel, sia al fine di portare ordine nella discussione (Nice, 1943) sia, in ambito propagandistico, per dare una base scientifica alle mire espansionistiche delle potenze dell'Asse, chiamando in causa la “sovrana legge di accrescimento”, comune a tutti gli esseri viventi, che imporrebbe ai “popoli sani […] di accrescersi, di svilupparsi, di divenire più grandi”, al fine di evitare “la degenerazione, la rinuncia alla vita, la morte”, e che “costituisce il fondamento razionale dello `spazio vitale”' (Soprano, 1942:14–15).

In tutte le sue declinazioni, il concetto di spazio vitale implicava l'ampliamento delle fonti di approvvigionamento alimentare e di materie prime a cui i “popoli sani” avevano diritto, e acquisiva pertanto un'immediata dimensione economica. Quest'ultima si componeva di due elementi: da una parte la contrapposizione tra Haves e Have-nots, ossia una “lotta di classe fra le nazioni” (Gayda, 1941:28), “tra popoli che hanno tutto e popoli che nulla hanno” (Amore Bianco, 2018:29), che affondava le radici nel mito corradiniano della “nazione proletaria” e nella visione dell'Italia come latecomer a fianco di Germania e Giappone (Corsi, 1939; Gayda, 1941; Soprano, 1942); dall'altra l'identificazione tra spazio vitale e spazio autarchico, che richiamava suggestioni già emerse con la crisi del 1929 e, soprattutto, con la “guerra delle sanzioni”, e presentava la conquista dello spazio vitale come una lotta per la “vera indipendenza”, che necessitava dell'“acquisto di posizioni e di territori che diano ai due popoli l'indipendenza strategica, l'indipendenza economica e la libertà dei traffici e dell'espansione demografica nei loro `spazi vitali”' (Geopolitica, 1940a:195). In questo senso lo spazio vitale era “quello spazio necessario all'esistenza e alla prosperità di uno Stato nazionale: necessario, cioè, a realizzare […] quell'alto grado di autosufficienza che permetta […] pienezza di vita” e in grado di coprire “un territorio, sufficientemente grande e vario nella sua struttura economica, capace di permettere ai consorzi umani in esso conviventi, un'enorme produzione in massa secondo la divisione moderna del lavoro […]; in altri termini: una economia autarchica” – riprendendo le parole dello studioso di relazioni internazionali Vedovato (1942:42) e del collaborare di Geopolitica Chersi (1941:208–209). L'idea di spazio vitale comportava quindi una qualche forma di superamento dello Stato nazionale –sostenuta tanto da un giurista vicino alla Scuola di Mistica fascista come Sertoli Salis (1941) quanto da propagandisti come Gayda (1941) – e tendeva a confondersi con l'idea di grande spazio.

Per quanto nel dibattito italiano emergesse talvolta una declinazione esclusivamente nazionale del concetto di spazio vitale, questa era spesso ritenuta insufficiente da parte dei suoi stessi sostenitori, che affermavano comunque la necessità di grandi spazi multinazionali, strutturati in “comunità imperiali” guidate da una potenza egemone (Nocera, 1940; Mazzei, 1941; Nice, 1943). Inoltre, se il concetto di spazio vitale doveva riassumere “le necessità dell'espansione demografica e della colonizzazione agricola, del rifornimento di materie prime essenziali da territori politicamente o militarmente controllati”, allora la “delimitazione degli spazi vitali […] alla base della futura riorganizzazione mondiale” avrebbe dovuto superare “i concetti del confine lineare […] e del confine etnico o linguistico” (Massi, 1940a:336), mirando a garantire il benessere di quel “popolo che ha le possibilità spirituali e quindi avrà la tendenza geopolitica ad occuparlo e a valorizzarlo” (Geopolitica, 1940b:322). La conquista dello spazio vitale era quindi presentata come la “ferrea necessità di alcuni determinati popoli”, che non dipendeva soltanto dalla pressione demografica o dai bisogni economici, ma anche dai “valori storici, culturali, etnici, razziali” (Vedovato, 1942:48–49) propri delle “grandi nazioni giovani, più sane, laboriose e creative” (Gayda, 1941:195) poiché, riprendendo le parole di Mussolini, “[u]n popolo portatore di un'antica e magnifica civiltà […] ha dei diritti sulla faccia della Terra” (Soprano, 1942:8). Una prospettiva – diffusa soprattutto da propagandisti come Gayda, Soprano e il giornalista, legato alla Scuola di Mistica e a Critica fascista, Berto Ricci – che tradiva un senso frustrato di entitlement, secondo cui le “nazioni diseredate” (Soprano, 1942:12) avrebbero dovuto “restaurare in Europa […] il senso della realtà storica e attuale” (Gayda, 1941:53) a discapito delle “popolazioni decrepite” e degli Stati minori (Ricci, 1940; Soprano, 1942:16).

In questo senso, la lotta per lo spazio vitale di Italia e Germania – i popoli europei “più vigorosi” ma limitati “dalla mancanza di base territoriale sufficiente” – era declinata anche in chiave razziale, come l'unico mezzo per arrestare il declino della “razza bianca, […] minacciata dal tracollo demografico di fronte alle razze di colore” (Soprano, 1942:75–95). Tuttavia, nel dibattito italiano le questioni razziali erano anche legate all'identificazione dello spazio vitale italiano nel Mediterraneo e nella colonizzazione africana, ossia in un grande spazio estremamente eterogeneo dal punto di vista etnico e culturale, che sollevava problematiche e imponeva soluzioni ben diverse da quelle dell'Europa continentale. Lo spazio vitale era quindi presentato come un “superamento”, ma non una contraddizione, delle dottrine razziali, in cui la potenza egemone avrebbe svolto una “funzione imperiale”, amalgamando sotto un “saldo potere unitario” le diverse “minoranze etnografiche-religiose-linguistiche” (Sertoli Salis, 1940:165, 1941:13). Il compito dell'Italia sarebbe stato quello di “organizzar[e] la convivenza dei popoli mediterranei” (Massi, 1940b:534), secondo una visione gerarchica dei rapporti tra i popoli e una rigida separazione etnica che rifiutava ogni forma di mescolanza o meticciato – difesa tanto da Soprano (1942:77) quanto dal collaboratore di Geopolitica Pozzi (1942:541–543). L'omogeneità razziale nei diversi territori doveva essere raggiunta meditante spostamenti di popolazione – tra cui l'“espulsione degli ebrei […] necessaria al rinnovamento europeo” (Sertoli Salis, 1941:17–19) – ma non la loro eliminazione. Piuttosto, i teorici italiani proposero una costante differenziazione del “contegno razziale” verso il mondo arabo e quello subsahariano, ossia un'“opera razziale e colonizzatrice […] persuasiva e penetrante” verso il primo e una “paterna severità” verso il secondo, che si sarebbe accompagnata a una presa di possesso del suolo africano da parte di coloni italiani (Pozzi, 1942:545–546).

La visione di uno spazio vitale mediterraneo non incontrò tuttavia unanime assenso nel dibattito italiano e, soprattutto in ambito economico, venne sollevata la questione che tale spazio non fosse affatto “vitale”, ossia autarchico, rischiando di diventare addirittura “una formula in cui domani noi possiamo essere prigionieri” (Amore Bianco, 2018:337–338). Una soluzione parve allora offerta dall'idea di Eurafrica, in cui era possibile imbrigliare Berlino salvaguardando il primato ideologico di Roma, e che avrebbe rappresentato l'unico “grande spazio autarchico” capace di reggere il confronto con quello americano e asiatico-orientale (Mazzei, 1941; D'Agostino Orsini, 1941; De Magistris, 1942; Magugliani, 1942). In questo caso, tuttavia, la fantasia geopolitica si allontanava tanto dalla realtà degli sviluppi bellici quanto dalle effettive intenzioni dell'alleato.

Nessuna di queste contraddizioni venne risolta prima del crollo militare e politico dell'Italia fascista. In ultima analisi, lo spazio vitale – nelle varie declinazioni dei primi anni Quaranta – si dimostrò un concetto inadeguato ai compiti per cui era stato adottato e, se poteva servire a giustificare l'espansione, non offriva nessun criterio per stabilire le forme e i modi in cui strutturare l'ordine postbellico, sollevando inoltre più problemi di quelli che prometteva di risolvere. Un fallimento riconosciuto pienamente da quanti, richiamandosi al senso biogeografico del concetto, finivano per concludere che “[o]gni popolo ha diritto al proprio spazio vitale”, e pertanto l'idea di spazio vitale poteva valere al massimo come strumento di rivendicazione, come “motore della lotta politica mondiale […], ma come mezzo pratico per l'ordinamento politico della Terra è inattuabile geograficamente e superata storicamente” (Nice, 1943:370–375).

6 Conclusione

Il primo e per certi versi più importante aspetto emerso dalla ricostruzione della ricezione del pensiero di Ratzel in Italia è che quest'ultima non fu assolutamente univoca e non si limitò agli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale. L'interpretazione di Ratzel come teorico della regione naturale e dei legami tra Stato e territorio – che aveva come corollario politico l'irredentismo e una visione sostanzialmente stabile dell'ordine internazionale – ebbe una notevole influenza nel panorama intellettuale italiano, affermandosi agli inizi del Novecento e proseguendo nel dopoguerra fino agli anni Quaranta, quando offrì a commentatori come Nice gli strumenti per criticare l'utilità politica del concetto di spazio vitale. Tuttavia, a questa interpretazione del pensiero di Ratzel se ne affiancò un'altra, focalizzata sulle idee di “lotta per lo spazio” e “legge dell'accrescimento”, che si traduceva sul piano politico in rivendicazioni coloniali e in una giustificazione dell'espansionismo. Questa seconda lettura non fu dovuta alle deformazioni operate da Kjellén, Haushofer o dagli ideologi nazisti, ma sorse assieme alla prima, dando luogo a un continuo dibattito sull'esegesi di Ratzel e sull'attualità delle sue idee che si protrasse per tutta la prima metà del XX secolo e si concentrò sul confronto tra elementi “statici” e “dinamici” – ricalcando una tensione presente anche nel pensiero ratzeliano (Bassin, 1987:473–474). La fortuna delle due interpretazioni ebbe fasi alterne, con la lettura irredentista che si impose dalla Prima Guerra Mondiale agli anni Venti e la variante espansionista che conobbe un primo apogeo alla vigilia della conquista della Libia per poi riemergere con vigore durante gli anni Trenta e restare dominante fino al 1943. Queste fasi furono segnate da momenti di trasformazione, dovuti non soltanto al confronto con la geografia francese o la geopolitica tedesca, ma anche allo sviluppo del quadro internazionale e all'impatto di eventi apparentemente lontani. Decisive, per il successo dell'interpretazione espansionista, furono infatti la vittoria del Giappone sulla Russia nel 1905 e l'invasione della Manciuria nel 1931–1932.

Più in generale, non diversamente da quanto avvenne in Germania, l'uso pubblico dei concetti ratzeliani si intrecciò con la rappresentazione dell'Italia come latecomer, condivisa tanto dalla lettura irredentista quanto da quella colonialista. L'immagine di un paese “senza spazio”, legittimato da necessità materiali e dal proprio retaggio storico e culturale a conquistarsi un posto tra le grandi potenze, era amplificata dalla discrepanza tra realtà politica e aspirazioni nazionali, acquisendo nel contesto italiano un rilievo che venne sopravanzato in Germania solo con la radicalizzazione seguita al trattato di Versailles (Bassin, 1987:483). Gli anni precedenti la guerra in Libia videro sia l'adozione delle idee di Ratzel per giustificare l'espansione coloniale, sia l'affermazione del paradigma secondo cui la conquista di nuovi spazi era necessaria per risolvere i problemi demografici dovuti alla presunta sovrappopolazione e alla conseguente emigrazione – una logica, incentrata sulla “legge di accrescimento”, che venne enfatizzata dal fascismo e si volse, durante gli anni Trenta, nell'equazione tra mancanza di spazio e stagnazione demografica (Murphy, 2018:89). Fu il concetto di spazio vitale a permettere il passaggio, di per sé contraddittorio, da un espansionismo basato sull'eccesso di popolazione e uno basato sulla necessità di sostenerne l'incremento – e lo fece attraverso l'affermazione di un diritto “culturale” allo spazio, che non era affatto estraneo al pensiero di Ratzel (Halas, 2014:13).

Al contempo, la visione dell'Italia come latecomer promosse un processo di identificazione con gli altri due paesi “senza spazio” – Germania e Giappone – rappresentando il principale argomento in favore di un'alleanza che, altrimenti, contraddiceva il fondamento ultranazionalista dei tre regimi contraenti, fosse questo declinato in senso razziale o come primato di civiltà – un processo di identificazione reciproca e di giustificazione della collaborazione che valse anche per gli altri due membri dell'Asse. In questo senso, come nel caso tedesco (Smith, 1980), il discorso italiano sullo spazio vitale fu soprattutto il tentativo di dare una veste scientifica a un progetto politico per la radicale ridefinizione dell'ordine mondiale. Tuttavia, a differenza della Germania, la declinazione espansionista del pensiero ratzeliano in Italia non condusse a esplicite fantasie di sterminio su base razziale (Bassin, 1987:484–485; Abrahamsson, 2013:7). A ciò contribuì certamente la minore incidenza del razzismo biologico nel fascismo, ma anche l'orientamento delle ambizioni italiane verso il Mediterraneo e l'Africa, che le avvicinava più all'imperialismo classico che al progetto nazista di applicazione delle logiche e dei metodi coloniali in Europa. In questa prospettiva, l'uso delle idee di Ratzel in Italia aderiva maggiormente alle concezioni originarie: la civiltà inferiore sarebbe scomparsa, per esaurimento biologico o assimilazione culturale, al contatto con la civiltà superiore (Danielsson, 2009). Per una corretta valutazione delle implicazioni di questa impostazione sarebbe però necessario uno studio sul ruolo svolto dal concetto di spazio vitale nell'elaborazione dei programmi di popolamento in Etiopia – un territorio che, nelle intenzioni del regime, era destinato all'insediamento agricolo di coloni italiani e dove la “paterna severità” non impedì affatto l'uso sistematico della violenza (Campbell, 2017).

Per concludere, tutto questo non significa rendere Ratzel responsabile dell'espansionismo nazi-fascista, dell'alleanza tripartita o dei genocidi che accompagnarono la Seconda Guerra Mondiale. Dal confronto con il suo pensiero potevano, e possono ancora oggi, darsi esiti diversi e forse opposti. Ciò nonostante, il compito di una ricostruzione storica non è quello di esaltare le possibilità – e ancor meno di identificare colpevoli o assolvere imputati – ma quello di comprendere le processualità che, nel caso specifico, significa ricostruire come l'interpretazione del pensiero di Ratzel che finì per affermarsi in Italia – così come in Germania – si traducesse nella giustificazione dell'espansione e della collaborazione tra i popoli “senza spazio”. Un processo che possiamo comprendere soltanto mettendo in relazione gli indirizzi intellettuali con le condizioni politiche interne e, soprattutto, con una visione globale degli sviluppi internazionali durante la prima metà del Novecento.

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Competing interests

The author has declared that there are no competing interests.

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Acknowledgements

I would like to thank Patricia Chiantera-Stutte, Ulrike Jureit, Matteo Proto, and the journal's anonymous readers for their valuable feedback.

Financial support

This research has been supported by the the European Union's Horizon 2020 research and innovation programme (Marie Sklodowska-Curie grant agreement no. 101019008).

Review statement

This paper was edited by Benedikt Korf and reviewed by two anonymous referees.

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Short summary
The paper explores the reception and re-elaboration of Friedrich Ratzel's political geography in Italy from the beginning of the 20th century to the Second World War, by focusing on the concept of spazio vitale (living space) and its use by fascist intellectuals and propagandists, who promoted expansionism and the trilateral collaboration with Germany and Japan.